Una passione lunga settant'anni

 



 

UNA PASSIONE LUNGA SETTANT'ANNI

Giuseppe Faccinetto a Pasturo

 

Tra mio padre, Giuseppe Faccinetto, e Pasturo c’era un legame profondo. Non un legame dettato da motivi sentimentali o da ricordi o da suggestioni letterarie. Nemmeno da ragioni pratiche. Era un legame d’elezione, frutto di una libera scelta della volontà. E come tale indistruttibile.

Di famiglia veneta residente in Svizzera fino allo scoppio del primo conflitto mondiale, mio padre era arrivato a Lecco in piena guerra, all’inizio del ’43. C’era arrivato senza più un braccio, perso in battaglia l’anno prima nel deserto della Cirenaica, e con una medaglia d’argento al valor militare appuntata al petto. Ma soprattutto c’era arrivato con il desiderio di voltare pagina e ricominciare. Aveva 25 anni e ancora tutta la vita davanti.

La sua conoscenza della meccanica e dei motori – che a militare gli aveva consentito di diventare istruttore motorista quando il suo reggimento, il Nizza Cavalleria, era stato dotato dei primi mezzi corazzati – lo aveva portato alla Sae, allora agli albori. È stato lì che è cominciato tutto.

Erano tempi difficili. Gli anglo-americani stavano aumentando la pressione sull’Italia con l’obiettivo di affrettarne la capitolazione. I bombardamenti su Milano e sulle altre aree industriali della Lombardia si susseguivano sempre più frequenti. Anche Lecco era un obiettivo. Mio padre, scapolo, viveva presso la foresteria del Garabuso, ad Acquate, nei pressi dello stabilimento. È stato per passare la notte lontano dagli allarmi aerei che è finito a Pasturo. Quassù, per lo stesso motivo, era sfollata la famiglia di Massimo Annovi, il giovane direttore della fabbrica divenuto nel frattempo suo amico. E Massimo lo aveva consigliato. Mio padre ospite dalla Bambina, in quello che oggi è l’albergo “Grigna”, l’amico in una casetta vicina. Ed era cominciato un periodo di avventuroso pendolarismo.

“La sera dopo il lavoro – raccontava – prendevamo l’Ercole dell’officina (Ercole era il nome del motocarro pesante della Guzzi, nda) e in tre o quattro salivamo verso Pasturo, pronti, il mattino dopo, a fare il percorso inverso”. Qualche volta, quando l’Ercole era impiegato in altri servizi, il motocarro veniva sostituito dalla bicicletta e alla giornata di lavoro si aggiungeva una bella sudata. Ma erano giovani e a Pasturo non ci si rinunciava. E non ci avrebbero rinunciato nemmeno nei mesi della guerra di liberazione, quando al rischio dei bombardamenti si sovrapponeva quello dei posti di blocco, fascisti e partigiani, e il permesso di circolazione rilasciato a suo tempo dal comando tedesco (per motivi di lavoro) non bastava più.

Era il 1943, dicevo. E ai primissimi mesi del 1943 risale la scoperta di mio padre di quel mondo che sta “sopra” Pasturo: Cornisella, il Pialeral, la Grigna, coi loro pendii in quel periodo perfetti campi da sci. Un vero paradiso per chi come lui aveva imparato a sciare, non ancora ragazzo, sui monti di Belluno. E’ stato un colpo di fulmine e il paese è diventato la sua patria d’elezione. Una patria sulla quale aveva deciso di lasciare un piccolo segno.

Finita la guerra, con qualche motore abbandonato dai tedeschi o dagli angloamericani (ne hanno avuti per le mani di entrambe le provenienze) lui e il suo amico Massimo hanno cominciato a mettere insieme le prime sciovie. All’inizio rudimentali: un motore, uno spezzone di corda alla quale aggrapparsi e una ruota di rinvio appesa a un albero o a un palo infisso nella roccia. La prima - raccontava - assemblata con altri appassionati appena sotto il Brioschi, sul versante nord della Grigna, durata lo spazio di una primavera. Poi sempre più sofisticati.

Del ’51 è il primo vero skilift - “slittovia” è scritto sul progetto - tra Arei e Piazza Cavalli al Pialeral. Skilift smontabile, per non dare noia alle mucche che d’estate su quei prati erano solite pascolare. Così a ottobre ci si metteva di buona lena per impiantare i pali che in aprile, con un bis di fatica, si dovevano smontare. Fortuna che la corda di fili d’acciaio era di quelle “leggere”, che correvano a un metro da terra e si tiravano senza eccessive sofferenze.

Qualche anno dopo, conquistata la fiducia dei bergamini e acquistati i primi pezzi di terra, i tre soci – a Massimo Annovi e a mio padre si era aggiunto, credo per puro spirito di amicizia, Tobia Fumagalli, piccolo industriale di Laorca – erano passati a sciovie più stabili, cioè permanenti. Una tra Arei e Piazza Cavalli, poi un’altra tra Catei e il Pialeral e, ancora, una terza dalla Foppa al Cimotto. A metà degli anni Sessanta, quando tutte e tre – seppur “private” – erano in funzione, si poteva salire dai 1200m di Catei fino ai 1900 del Cimotto. Una discesa senza uguali in tutta la Valsassina. Poi, nel 1970, sempre tra Arei e Piazza Cavalli fu la volta del primo skilift “vero”, con tanto di società proprietaria, una snc iscritta al registro delle imprese, di collaudo, autorizzazione regionale, orari e tariffe.

Skilift costati soldi, ma soprattutto lavoro e fatica. Perché allora, per portare pali, corde, motori, benzina, gasolio e materiali vari non c’era la strada che c’è oggi. Tutto veniva trasportato a spalla e a dorso di mulo (la prima jeep era arrivata nel ’64) su per la vecchia mulattiera; solo nel ’70, per i trasporti più pesanti, era stata montata una teleferica di servizio. E tutto per passione. Perché, forse, c’era anche la recondita speranza che quegli skilift potessero rivelarsi un affare, in tempi come quelli di grande espansione dello sci di discesa (in fondo bastava che qualcuno si prendesse la briga di impiantare una seggiovia tra Pasturo e Cornisella o poco più su e il gioco era fatto). Ma il vero obiettivo di tanti sacrifici era quello di avere degli impianti che consentissero a loro, ai loro amici, agli sciatori di Pasturo e a tutti quelli che ci capitavano, di godere la bellezza di quei pendii lontani dalle code di Bobbio, di Erna o di Artavaggio. Una giusta ricompensa per la scarpinata che – sci in spalla – si doveva fare per raggiungerli.  

Non è stata un’avventura da poco. È durata più di tre decenni (fino alla slavina dell’86) e ha cementato il legame di mio padre con questa terra e con i suoi uomini.  

Perché questo è l’altro aspetto, più importante del primo. Se gli skilift sono stati, e in parte sono ancora, nonostante gli anni e le valanghe, testimoni della forza di un progetto perseguito con determinazione e passione, sono i legami instaurati con la gente di qui ad essere destinati a vivere a lungo nei ricordi. I vari Ticozzi, Aliprandi, Bergamini, Perondi, Orlandi, De Dionigi, De Martini, Mazzoleni, Agostoni, Doniselli, per non parlare dei Gandin o dei Pensa, gestori del rifugio Tedeschi (e mi si perdoni qualche dimenticanza), sono stati per decenni protagonisti di una cerchia di rapporti consolidati. Tra loro molti, negli anni Cinquanta e Sessanta, erano stati assunti alla Sae. Altri avevano contribuito con le loro competenze alla realizzazione degli skilift (e al consolidamento dei manufatti della vecchia mulattiera). Altri ancora erano stati fornitori di materiali o dispensatori di utili consigli. Alcuni - Ambrogio Aliprandi, Michele Ticozzi e Angelo Ticozzi - dipendenti Sae e competenti collaboratori nella realizzazione delle sciovie, erano stati poi, insieme al motorista Giuseppe Gambarelli, anche parte dello staff ufficiale della sciovia Arei – Piazza Cavalli negli anni in cui restò aperta al pubblico.

Tra mio padre e molte di queste persone si instaurò un’amicizia durata tutta la vita.

Le occasioni per alimentarla del resto non mancavano. Perché non c’erano solo gli skilift e non c’era solo la Sae a favorire i rapporti fra mio padre e la gente di Pasturo. Nel 1960 aveva comperato uno dei vecchi mulini sul Grinzone e con noi figli lo aveva ristrutturato. Non perché volesse viverci e nemmeno per trascorrere i momenti liberi – per quelli avrebbe sempre preferito il Pialeral – ma come segno della stabilità del suo rapporto con il paese.

Sempre in quegli anni aveva acquistato, accanto al “suo” skilift, una piccola baita agli Arei. Lassù, per tutto il resto della vita, ci sarebbe andato quasi ogni domenica del calendario. Poi, una volta in pensione, anche tre, quattro volte alla settimana. A piedi o col guzzino (come facesse con una mano sola non l’ho mai capito, ma ce la faceva) o con la sua Alfa “Matta” o con la fedelissima Panda.

Quasi mai quei brevi viaggi erano diretti. Certi giorni le tappe erano infinite. Qui c’era un bergamino sul pascolo da salutare, là ce n’era un altro da andare a cercare per avere notizie di un certo affare, più avanti ce n’era un altro ancora che aveva chiesto l’interessamento per qualche faccenda di lavoro. Poi c’erano i conoscenti incontrati per via e i pastori e i “capanatt” del Pialeral o della Grigna. E gli amici intravisti sulla soglia della loro baita, per salutare i quali valeva ben la pena fare una deviazione.

Perché era uno di poche parole, mio padre. Ma a Pasturo (e lungo la salita per il Pialeral) se ne dimenticava.  

 

                                                                                           Angelo


IL GRINZONE n. 57



 

 

Capanatt e skilifista

 



 

CAPANATT e SKILIFISTA

 

Nei giorni 5, 6 e 7 settembre, nella Piazza Vittorio Veneto di Pasturo, è stata allestita una mostra su Giovanni Gandin, per gentile concessione del CAI Lecco. Della guida alpina Gandin (IL GRINZONE n.22, marzo 2008) riportiamo un ricordo di Angelo Faccinetto pubblicato sul numero 2/2015 della Rivista del CAI Lecco 1874 .

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Ero appena un bambino allora, ma “il Gandin” – sempre rigorosamente chiamato così, con l’articolo determinativo – me lo ricordo bene. Per molti anni, anche se da noi ci metteva piede solo per qualche cosa da sbrigare, è stato come uno di casa. Presenza costante nei discorsi di mio padre. E orizzonte fisso delle mie mattinate domenicali, regolarmente santificate in Pialeral dopo una discreta scarpinata che prendeva le mosse dal cortile del bar-osteria della Leri a Balisio, dove si lasciava la macchina. Con qualunque tempo. (Ma se domani piove? Se piove si prende l’ombrello – era il refrain di mio padre).

In quegli anni il Gandin era il custode del “Tedeschi”, mio padre il comproprietario dello skilift poco distante, impiantato appena al di là della valletta di Parolo. Credo fosse per questo che noi avevamo il “privilegio” di accedere al rifugio dalla porta di servizio, quella che dava sul pollaio, guardava gli Scudi e immetteva direttamente in cucina. Entravamo e il Gandin, per niente alto ma ben piantato, se ne stava ritto dietro la stufa attorno alla quale si affaccendava la moglie. Quella posizione e il fare un po’ burbero gli conferivano un che di severo che mi intimoriva. Così, potendo scegliere, preferivo stare vicino al suo aiutante, il Giromin, un omino piccolo e taciturno dall’età indefinita, che ricordo spesso intento - tenendone un pezzo per mano - a mangiare pane e cipolla sotto il suo cappello, di un paio di misure più grande, perennemente calcato sugli occhi.

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Aveva fama di essere in gamba il Gandin come capanatt. Il vecchio “Tedeschi” (è stato spazzato via da una slavina nel gennaio 1986) era sempre pulito, ben riscaldato dalle grandi stufe di cotto troneggianti nelle due sale da pranzo e - credo grazie alla moglie - ci si mangiava bene. Un piacere starci. E poi lui era più che un semplice custode. Non solo perché era disponibile, a dispetto di una certa spigolosità di carattere. Si sapeva della sua attività di guida, che andava ben oltre le montagne di casa, della sua abilità di rocciatore, delle vie tracciate in Grignetta e Grignone (non per niente quell’appellativo di “Gatto delle Grigne”) , della sua minuziosa conoscenza della montagna, della sua perizia e generosità di soccorritore. E lo sapevano gli escursionisti che venivano fin là.

Io ancora non ero in grado di apprezzare queste cose. Ma ero rimasto affascinato da quello che un giorno, salendo, mi aveva raccontato mio padre: “Lo sai che quando era giovane il Gandin era amico del re del Belgio e rocciava con lui?”.

Avevo fantasticato molto sul Gandin e il “suo” re, che proprio non riuscivo a figurarmi in veste di rocciatore dovendo portare l’alta uniforme e la corona. E mi chiedevo se anche sulle guglie, su e giù per la Grigna, si portasse come aiutante il piccolissimo Giromin.  

Quando, dopo vent’anni di gestione, decise di lasciare il rifugio e scendere a valle lasciando disorientati i dirigenti della SEM, per i frequentatori del Pialeral era davvero finita un’era.


C’è però un altro aspetto, forse poco noto, che vorrei ricordare. Non era solo guida alpina, rocciatore, rifugista e soccorritore: il Gandin era anche skilifista.

52 Gandin2Al Pialeral, tra Arei e Piazza Cavalli a un passo dal “Tedeschi”, nel 1952 mio padre e il suo amico Massimo Annovi avevano impiantato un primo skilift. Era lungo poco più di mezzo chilometro, superava un dislivello di 215 metri, era dotato di un motore inglese a benzina da 8 cv, era capace di trasportare 53 persone l’ora e poteva funzionare con un vento laterale alla fune fino a 120 km/h. Ma soprattutto aveva una particolarità: era una sciovia smontabile. In autunno, con un buon numero di giornate di lavoro, venivano impiantati i pali e le stazioni di partenza e di rinvio, veniva tesa la fune; poi in primavera, allo sciogliersi delle nevi, con altrettante giornate di lavoro veniva smantellato. Per non intralciare il pascolo alle vacche. Così fino al 1958, quando nuovi accordi coi bergamini avevano consentito il passaggio a un più pratico impianto fisso.

Oltre a una consolidata consuetudine, era la sciovia il motivo del legame del Gandin con mio padre. 

Perché il Gandin era della partita. Dava il suo contributo nelle fasi di montaggio e smontaggio e quando l’impianto era pronto per l’uso faceva il motorista, cioè l’addetto al funzionamento. Lo ha fatto per diversi anni anche dopo aver lasciato la conduzione del rifugio (quando anch’io ero ormai chiamato a dare il mio piccolo contributo all’attività di manutenzione). D’altra parte non era un grande impegno. Lo skilift funzionava solo per qualche ora alla domenica e solo per noi e qualche avventuroso sciatore di passaggio. Era un impianto privato e tale restò fino all’inizio degli anni settanta, quando fu completamente rinnovato e per un decennio venne utilizzato come supporto alle scuole di sci alpinismo.

Il Gandin lo ricordo così. In piedi su un piccolo trespolo di assi intento ad agganciare alla fune dello skilift la pinza cui era legato il traino e ad accompagnare con un ampio gesto del braccio lo sciatore in partenza. Quasi una benedizione. Poi sarebbe salito anche lui.

                                                                                  

                                                           Angelo Faccinetto


IL GRINZONE n. 52



Andrea Zaccagni, una persona speciale

 



 

ANDREA ZACCAGNI, UNA PERSONA SPECIALE 

 

Chi era Andrea?

Nasce a Paderno Dugnano, cittadina di circa 50.000 abitanti nell'hinterland milanese, il 28 febbraio1966 e qui si svolge tutta la sua giovinezza riempita inizialmente dalla passione per il calcio nel ruolo di portiere, ruolo per il quale ha raccolto alcuni premi.
Gradualmente comunque, grazie anche alla passione per lo sci e alla possibilità di trascorrere week-end e ferie in Val Brembana, dove avevamo una casa in affitto, si avvicina gradualmente alla montagna... prima con le classiche escursioni, poi iniziando ad individuare qualche cima da conquistare.
Così a 18-19 anni inizia ad arrampicare prima sulle rocce di Introbio, guarda caso di fronte a dove 25 anni dopo sarebbe andato a vivere, e poi in Val di Mello e Val Masino sempre accompagnato dai suoi grandi amici di montagna, Serse e Marco.
La passione per la montagna cresce sempre più e frequenta sul Cevedale un corso per progressione su ghiacciaio seguito nel 1995 da un successivo corso di arrampicata su ghiaccio.


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Innumerevoli le ascensioni e i 4000 metri culminati con il Monte Bianco, ma arricchiti dal Bernina, Monte Rosa, Disgrazia, Gran Paradiso, Castore, Polluce, Lyskamm... per finire con il Cervino, inseguito e studiato per tanti anni e raggiunto nel 2008 in solitaria.
Il Cervino e la parete Nord del Lyskamm, più volte tentata ma respinto da condizioni non favorevoli, erano i suoi grandi sogni...
Negli ultimi dieci anni trascorreva parte delle sue ferie a Zermatt... proprio sotto la parete Est del Cervino.
La Grigna e la Grignetta riempiono però i suoi week-end e diventano grandi palestre e luoghi da scoprire.

Dopo la morte della mamma, avvenuta nel 1994, Andrea si trasferisce a vivere da solo: prima a Bernareggio, poi nel 2000 finalmente a Ballabio ai piedi della Grignetta.
E' la persona più felice del mondo... Più volte mi ripete "andiamo a cercare vette lontane e qui vicino a casa c'è un mondo fantastico da scoprire che ti toglie il fiato."
Dopo essere arrivato a Ballabio, scopre Pasturo... e più volte mi dice che lui lì vuole andare a viverci... Nel dicembre 2011 Andrea diventa cittadino di Pasturo.
Proprio a Pasturo scopre le poesie di Antonia Pozzi e se ne innamora.....
L'ultimo giorno dell'anno era rigorosamente, salvo eccezioni, trascorso in montagna e più volte il Rifugio Brioschi è stato meta di un nuovo inizio d'anno, magari con una discesa con gli sci dopo il cenone e l'alba di un nuovo anno.

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Oltre alla montagna Andrea si era brevettato, dopo la metà degli anni 90, anche in parapendio presso la scuola di Suello degli Scurbatt.
Sempre negli anni 90 si avvicina alla corsa in montagna partecipando per due volte al Trofeo Longo.

Gradualmente la Corsa in montagna diventa la sua grande passione e gli ultimi 15 anni sono ricchi di gare. Partecipa anche alla gara a staffetta del Morterone e via via entra sempre più in questo magico ambiente: nel 1999 il Kima, e poi di seguito innumerevoli altre gare tra cui Valmalenco Poschiavo, Ortles Cevedale, Scaccabarozzi Trofeo Vanoni, Giir di Mont… 
Conosce tantissima gente e si tiene sempre informato su tutto e tutti. La passione è travolgente. Entra nella Polisportiva Pagnona e si mette in testa di dare visibilità in web alla società... e così nasce il portale della Polisportiva Pagnona realizzato in completa autonomia e autodittatica da Andrea. Il sito diventa un riferimento per il mondo della corsa in montagna; non manca nulla: news, calendari, risultati.....

I grandi campioni li segue e cerca di conoscerli anche come uomini, non solo come atleti. E così rimane sconvolto da quanto succede a Marco De Gasperi con la squalifica della sua compagna Elisa Desco. Non ci crede al doping e vuole andare a fondo... conoscere di più le persone per capire... perchè di Marco era un grande tifoso e stimava moltissimo anche Elisa.
Nasce così un'amicizia via mail e web con diversi scritti di incoraggiamento e vicinanza ai due. Questo legame è forte, tanto che Marco pubblicherà sul suo sito un articolo per Andrea dopo la sua morte dal titolo: "Andrea Zaccagni ha staccato tutti. Il doveroso ricordo di una persona speciale."  (www.marcodegasperi.it)

 

L'estate del 2012 l'ha vissuta intensamente, come al solito con una diversità rispetto agli ultimi anni: niente Zermat. Era preoccupato dalla perdita del lavoro avvenuta a Febbraio di quell'anno; era dirigente nel settore chimico, e stava valutando ipotesi di lavoro come Trader che avrebbero dovuto concretizzarsi con l'autunno.
P
urtroppo non c'è stato modo di arrivarci... perché l'11 Settembre, la montagna che amava l'ha voluto a sé...
E' stato tremendo: in quei due giorni, il 10 e l'11, sentivo dentro di me una sensazione strana... una strana agitazione... E l'11 sera, quando non arrivava la sua solita telefonata... ho capito il perché di quell'agitazione…

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Andrea amava Pasturo e
la Grigna... e qui ho voluto che riposasse... nel cimitero dove ogni tanto passava per vedere la tomba di Antonia Pozzi.
Andrea, come dice l'amico Marco, era, anzi preferisco continuare a dire "è", una persona speciale: sempre disponibile con tutti, vicino ai ragazzini della Polisportiva, pronto a incitarli o a riprenderli se trascuravano la scuola. Andrea era questo: un uomo nato in città, ma con il cuore e la semplicità che solo la vicinanza con il cielo può regalarti.

 

E per tenerlo sempre vivo in tutto il mondo della corsa in montagna ho voluto pensare alla ZacUP, un nome che è nato prima ancora del percorso. Un nome che era il suo "nome" inciso sulle canotte che indossava in gara: Zac era il suo diminutivo tra gli amici, UP la sua passione per l'ascensione.
Devo ringraziare il Sindaco Guido Agostoni, perché, quando ci siamo incontrati e ho parlato a lui della mia idea di una gara in memoria di Andrea, mi ha subito incoraggiato, vedendo una possibile prosecuzione del Trofeo Scaccabarozzi, che gli Amici di Missaglia intendevano sospendere; sarebbe stato sicuramente significativo proporre una nuova competizione per ricordare un cittadino di Pasturo e per mantenere Pasturo e la Grigna riferimento della Corsa in Montagna. E così con Marco Orlandi, Assessore allo Sport del Comune, la Polisportiva Pagnona, i Falchi di Lecco e gli amici del Pialeral abbiamo costituito il Comitato per l'organizzazione della gara che è entrata nel calendario del circuito FISKY (la Federazione dello SkyRunning) per il 22 Settembre 2013.

Stiamo realizzando il sito della manifestazione (www.zacup.it) che dedicherà spazio sia alla Grigna che a questo meraviglioso paese di Pasturo di cui anch'io ormai posso essere orgoglioso di essere cittadino.
La gara prevediamo possa avere la partecipazione di grandi atleti e grandi uomini, ma soprattutto vogliamo che ci siano tante persone amanti della montagna e della corsa... e così abbiamo deciso di dare una svolta nell'organizzazione di queste manifestazioni: riduzione dei Montepremi per i vincitori per una quota di iscrizione più vicina a tutti (15 €).

Chi viene a correre lo deve fare perchè ama lo sport e ama la montagna: la montagna è semplicità... la montagna è per tutti.
Come diceva Andrea nella home del suo sito "La Montagna è vita e, se oggi non sappiamo più vivere per la Montagna, lasciamo che un po’ di Essa viva in noi".

                                  

                                                                       Alberto


IL GRINZONE n.42



Un appassionato maestro di studi classici

 



 

UN APPASSIONATO, CONTAGIOSO MAESTRO DI STUDI CLASSICI

Don Giovanni Ticozzi nel ricordo di una sua allieva

 

45 donticozzi1Ci sono persone che lasciano il segno nella Storia (macrostoria), diventando protagonisti e testimoni di un’epoca; altre che lo lasciano nella storia di tutti i giorni, di ciascuno di noi (microstoria), pur rimanendo, molto spesso, nell’anonimato; altre ancora, infine, riescono a ‘sfondare’ sia nell’una che nell’altra. È in quest’ultimo caso che si inserisce don Giovanni Ticozzi (Pasturo, 1897-1958), figura di spicco della vita politica e culturale lecchese della sua epoca. Uomo di molteplici interessi, profondo e appassionato conoscitore di storia dell’arte, fondatore con pochi amici del Centro di Cultura nel 1945, dedito con passione all’insegnamento, amante della libertà in tutte le sue espressioni, tollerante e generoso, don Ticozzi fu e rimase per tutta la vita un grande maestro, che aveva fatto dell’insegnamento una vocazione, nel contatto vivo e continuo coi giovani. Dopo aver insegnato nei licei di Gorla e di Celana fu nominato nel 1937 professore di latino e greco e di storia dell’arte al Ginnasio-Liceo “A. Manzoni” di Lecco, di cui fu preside dal 1941, lasciando nei suoi allievi un ricordo indelebile della sua ricca e limpida personalità, della sua cultura e della sua missione di educatore.


Una sua allieva, Olimpia Aureggi Ariatta, conserva di don Ticozzi un ricordo ancora vivo, affettuoso e riconoscente. Ma prima di entrare nel vivo dell’intervista, è opportuno tracciare un breve profilo della nostra gradita ospite.

Olimpia Aureggi nasce a Chiavenna il 25.3.1928, da Alessandro, avvocato, appartenente a una antica famiglia originaria di Bellagio, e da Margherita Perego, che aveva affinato in Germania la sua già brillante cultura. Nel giugno del 1938, a Lecco, dove abita con i suoi genitori, si iscrive al civico Liceo/Ginnasio pareggiato “A. Manzoni”, dove ha la grande fortuna di seguire le lezioni di latino, greco e storia dell’arte tenute dal prof. don Giovanni Ticozzi, che della scuola era pure Preside. Anche su suggerimento di tale Maestro, Olimpia nel 1945 si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano, dove si laurea il 6 luglio 1949 con il massimo dei voti e la lode. Si iscrive all’albo degli avvocati ed esercita la relativa professione a Lecco prima e, poi, dopo il matrimonio, a Milano. Contemporaneamente si dedica all’Univer-sità, come assistente alla cattedra di Storia del diritto e nel 1963 consegue la Libera Docenza Universitaria.


Che ricordo conserva del suo vecchio professore di latino e greco, don Ticozzi? Era severo? Come riusciva a mantenere alta la motivazione per uno studio, come quello delle lingue classiche, dichiaratamente non spendibile nell’ambito pratico?

Io conservo uno splendido ricordo di don Giovanni Ticozzi: non solo venerato, insuperabile Maestro di greco, latino, storia dell’arte, ma anche educatore attento e sensibile – dalla vastissima cultura, dalla profonda conoscenza dell’animo umano, dal generoso entusiasmo – che sapeva suscitare nei giovani l’amore per i grandi valori morali ed estetici, ed anche per tutto quanto di bello e di buono la vita offre ogni giorno a ciascuno. Eccezionale il metodo seguito in proposito: iniziare con la lettura in classe di un testo letterario o con l’esame di un’opera d’arte, soffermandosi, innanzi tutto, sul piacere dato dall’opera in sé e per sé, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione; proseguire, poi, traendo o, meglio, lasciando trarre dagli allievi, guidati dal Maestro, tutte le osservazioni, riflessioni, conseguenze culturali (quindi linguistiche, estetiche, stilistiche, storiche, analogiche…) ed etiche, risalendo infine dal caso particolare ai principi generali. Indimenticabile in proposito lo sguardo del Maestro quando si illuminava recitandoci versi della letteratura greca: guardando oltre le vetrate dell’aula scolastica, don Ticozzi veramente vedeva sorgere dalle correnti dell’Oceano l’omerica “aurora dal peplo di croco”, sentiva l’eccelsa armonia dell’inno ad Afrodite di Saffo e della danza sacra intrecciata dalle Cretesi sull’erba tenera, si rallegrava al ritmo giocoso dei versi di Alceo per la cicala, oppure per una libagione festosa … l’atmosfera era talmente magica da coinvolgere anche noi, poveri allievi.

Nella vastissima letteratura greca, però, un’opera era particolarmente cara a don Ticozzi, non epica e non lirica, ma drammatica: l’Antigone di Sofocle, con le famose parole urlate dalla mitica protagonista e ricordate spesso da don Ticozzi: “non per odiare insieme, ma per amare insieme io sono nata”. Parole che il nostro Maestro, sacerdote cattolico, ha vissuto nella drammatica realtà, quando – nell’ultimo e più pericoloso periodo della guerra – non ha accettato di “odiare insieme”, ma ha continuato ad “amare insieme”, aiutando i moltissimi in difficoltà e subendo le relative pesantissime conseguenze (dopo una breve detenzione per motivi politici, la costante minaccia di deportazione in Germania in un campo di lavoro nazista).

Un notevole interesse don Ticozzi riservava anche alle opere filosofiche: tra gli autori greci preferiva Platone, specialmente nell’Apologia di Socrate e, in questa, il concetto – attribuito allo stesso Socrate – secondo il quale il vero sapiente è colui che non pretende di sapere quello che non sa: concetto che don Ticozzi ricordava spesso anche agli allievi, aiutandoli a svilupparlo. Stimava anche il De amicitia e il De senectute di Cicerone, di cui apprezzava la concinnitas dello stile, come apprezzava la stringatezza di Cesare, la varietas di Tacito e le composizioni di Orazio.
Non amava, però, la cultura latina come amava la greca: riteneva che – soffocata inizialmente da questa – non avesse potuto svilupparsi autonomamente e quindi non avesse potuto esprimere tutte le proprie potenzialità; si rallegrava, però, pensando che, grazie ai Romani, la cultura greca aveva potuto sopravvivere al crollo politico delle popolazioni che l’avevano espressa, espandendosi nel territorio dell’Impero romano e, alla fine di questo – grazie al cristianesimo – giungendo, di grado in grado, fino a noi ancora intellettualmente viva.



In una lettera del 20 maggio 1913, indirizzata a Mons. Carlo Castiglioni, don Ticozzi scriveva: “mi piace tanto il greco”. Qual era il suo rapporto con la letteratura classica greca e latina?

Benedetto Croce affermava che “nessuno di noi può dire di non essere cristiano”, indipendentemente dalla confessione religiosa, ma per il semplice motivo che il cristianesimo costituisce una componente notevole della nostra cultura, della nostra civiltà. E un’altra componente notevole di tale nostra civiltà, di tale nostra cultura è costituita anche da quella classica. Rinunciare a conoscerla significherebbe rinunciare a conoscere noi stessi, respingendo l’invito “Conosci te stesso” scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, invito che anche don Ticozzi, saggiamente, rivolgeva agli allievi, agli amici e, persino, agli sconosciuti.
Egli, però, prevedeva e temeva quanto poi è realmente accaduto negli oltre cinquant’anni passati dopo la sua scomparsa: la contrazione degli studi classici si è rivelata direttamente proporzionale alla involuzione della cultura, della civiltà, con effetti negativi in tutti i campi, anche l’economico.

A proposito dello studio delle lingue classiche, don Ticozzi riteneva che esso fosse preziosissimo per diverse ragioni: innanzi tutto perché si può conoscere, comprendere e cogliere il valore formale e sostanziale di un’opera letteraria e, in particolare, poetica solo se si conosce la lingua in cui è stata creata, come analogamente si può comprendere veramente il valore di un’opera musicale e della sua esecuzione solo se si possiede una adeguata conoscenza delle regole della composizione e del linguaggio con cui si esprimono autore ed esecutore. In proposito don Ticozzi suggeriva ai giovani di leggere le opere classiche esclusivamente nel testo originario, ma tenendo sempre pronta una valida traduzione, da consultare eccezionalmente, solo per le frasi ritenute incomprensibili e da confrontare con la interpretazione propria. Don Ticozzi, inoltre, riteneva utilissimo lo studio delle lingue classiche, per le loro regole grammaticali e sintattiche profondamente razionali, che costringono ad un costante esercizio logico altamente formativo, paragonabile solo a quello dell’alta matematica. A proposito di questa e della contrapposizione del suo studio a quello delle discipline umanistiche don Ticozzi ricordava che si trattava sempre di cultura classica: anche Pitagora ed Euclide erano greci come Omero e Fidia.

 

Qual era il suo rapporto con i suoi allievi e i suoi colleghi?

Il Cardinale G.F. Ravasi ha recentemente affermato, ricordando Plutarco, che Buon Maestro è colui che non colma la mente dell’allievo con tante nozioni, ma colui che nell’allievo “accende una fiamma”, ossia “accende interessi, apre squarci, di vita e di verità… Con l’alunno ricerca ed impara”: pare il ritratto di don Ticozzi, che, in verità, ha fatto anche molto, molto di più. Era, infatti, comprensivo verso l’allievo, mai severo; teneva sempre attenti i ragazzi con lezioni piacevoli, che suscitassero interessi ed aprissero le giovani menti al ragionamento; consentiva agli allievi di usare, durante le verifiche (da noi allora chiamate “compiti in classe”) non solo il vocabolario, ma anche grammatica, sintassi, appunti, persino il famoso prontuario per i verbi greci detto “Pechenino” dal nome dell’autore, commentando tutto ciò bonariamente con le parole: “… tanto tutto questo non vi serve, perché se siete preparati non vi occorre e se non lo siete: …è tutto inutile”.
Insomma un Maestro ideale che accendeva non una ma mille “fiamme”.
Una particolare attenzione era rivolta da don Ticozzi – oltre che ai suoi allievi, anche ai giovani insegnanti.

 

Oltre alle lingue classiche, don Ticozzi era un profondo, appassionato studioso di storia dell’arte che sapeva far amare e apprezzare nella sua forza e nella sua bellezza. Che cos’era per lui la bellezza? Come vi insegnava a riconoscerla?

Per don Ticozzi la bellezza di un’opera d’arte consisteva nell’armonia delle forme intesa come espressione di un contenuto, concetto espresso soprattutto nelle statue greche, in cui la suprema armonia di forme maschili (dall’Acrobata di Creta, dall’Auriga di Delfi, fino all’Ermes di Prassitele, ai rilievi del Partenone e del tempio di Zeus ad Olimpia) esprimono un perfetto equilibrio fisico e morale, una efficienza ottenuta con la rigida osservanza di regole precise, con un impegno inderogabile, con una volontà tenacissima: sintesi felice, da definire col binomio carissimo a don Ticozzi “musikè kai guinastiké”, per indicare le due componenti – fisica ed intellettuale – della bellezza greca maschile, tutto sull’affascinante sfondo dei Giochi Olimpici Panellenici.
Anche nelle diverse statue greche femminili don Ticozzi vedeva l’armonia delle forme, ma dal diverso contenuto; nella rigidità dell’Era di Samo – che gli piaceva moltissimo – e dell’Athena Parthenos – molto meno da lui ammirata – vedeva la sacralità delle dee e una compattezza, una forza propria delle robuste colonne, intese come solidi appoggi per i fedeli l’una e per gli Ateniesi l’altra; nelle diverse statue di Afrodite, l’armonia delle forme morbide e sinuose esprimeva – secondo don Ticozzi – l’ideale di madre feconda. Una attenzione particolare veniva richiamata dal Maestro sul Trono Ludovisi, specialmente sul rilievo in cui Afrodite, appena nata ma già adulta, esce dal mare: l’armonia delle forme accentuata dalla simmetria, secondo don Ticozzi, suggeriscono una serena e sacra armonia.

 

Oggi, in una scuola che ha smarrito la sua primaria funzione educativa e culturale, anche il liceo classico è in crisi, ‘ucciso’ dalle recenti riforme scolastiche. Che ne pensa? E per finire, qualche consiglio da dare agli studenti di oggi e ai loro insegnanti.

Dagli insegnamenti di don Ticozzi si potrebbero trarre preziosi argomenti a favore del liceo classico e preziosi consigli agli insegnanti.
Innanzi tutto bisognerebbe smontare alcuni pregiudizi sul fatto che il liceo classico sia superato e che ora sia più conveniente uno studio scientifico o tecnico, inoltre che non convenga impegnarsi nello studio di lingue classiche.
Occorrerebbe, poi, riformare la scuola media inferiore, reintroducendo il latino, almeno facoltativo, fin dal primo anno, così che i ragazzi non si trovino più in quarta ginnasio ad iniziare lo studio di entrambe le lingue classiche (ai miei tempi già alla fine delle elementari si affrontava un esame di ammissione al ginnasio, esame che riguardava anche l’analisi logica con riferimento ai casi latini, l’italiano scritto ed orale, la matematica e le materie minori, tra cui il dettato senza punteggiatura). Così, lemme lemme, piano piano, quando ci trovavamo in quarta ginnasio avevamo già studiato per tre anni scolastici il latino e tradotto sia dal latino all’italiano che viceversa, avevamo già studiate le Favole di Fedro, i Commentari di Cesare, le elegie di Tibullo ed Ovidio, letto interamente l’Odissea e l’Iliade nella traduzione in italiano fatta rispettivamente dal Pindemonte e dal Monti….

Bisognerebbe però anche trovare (o formare) insegnanti capaci di interessare gli allievi come faceva don Ticozzi…


                                                                               Marco Sampietro


IL GRINZONE N.45



 

Stefano Ticozzi e la storia dell'arte



 

STEFANO TICOZZI E LA STORIA DELL'ARTE


In alcuni brevi scritti precedenti abbiamo cercato di rinfrescare l’immagine e il ricordo del buon sacerdote e rivoluzionario Stefano Ticozzi, per la sua produzione letteraria ed editoriale. Ora pur nei limiti della dovuta brevità, pensiamo sia giunto il momento di concludere la nostra rapsodica analisi della sua variegata opera critica e letteraria, e vorremmo farlo con l’aspetto cui certamente egli dedicò le sue migliori energie, il campo più originale dove profuse la propria fatica, la storia dell’arte.

Tutti sappiamo che l’Italia, il nostro bel paese, è la patria dell’arte e della bellezza artistica, ma non di meno il nostro è anche il paese che per primo si dedicò in modo organico e impegnato allo studio e alla elaborazione della teoria e della storia dell’arte moderna. Anche per questo aspetto occorre partire dalla grande stagione rinascimentale, che produsse novità ed eccellenze senza eguali nel campo della riflessione artistica. Soprattutto in Toscana naturalmente, come il geniale e intuitivo Leonardo o il grande e sistematico Giorgio Vasari; ma anche la Lombardia conobbe nel Cinquecento le sue personalità di spicco, come il mantovano Gregorio Comanini e soprattutto il milanese Giovan Paolo Lomazzo. Nel Seicento si aggiungono numerosi e anche settoriali repertori di temi e di personalità, che fonderanno in buona parte quello che ancora costituisce il grande canone artistico nazionale. Il secolo XVIII aggiunge la straordinaria fioritura della grande erudizione, antiquaria, letteraria e storica: è l’epoca di studiosi eroici e generosi che hanno posto, pur con tante manchevolezze, le basi della scienza storica moderna, in personaggi come il milanese Filippo Argelati, il bergamasco Girolamo Tiraboschi, o il più grande Ludovico Antonio Muratori. Appena al di qua di tale importante e riconosciuta linea di innovazione storica, che aveva posto per la prima volta una esigenza di indagine originale e di sistematicità, si colloca l’opera più importante in campo storico artistico del Ticozzi, stampata in redazione minore nel 1818 e poi in ampia edizione definitiva poco più di dieci anni dopo; di essa riportiamo per intero la dicitura che appare nel frontespizio, che rende ragione della complessità della fatica e della dignità del suo autore. Si tratta del: “Dizionario degli Architetti, Scultori, Pittori, Intagliatori in rame ed in pietra, Coniatori di medaglie, Musaicisti, Niellatori, Intarsiatori d’ogni età e d’ogni nazione”, di Stefano Ticozzi, socio onorario dell’Accademia di Belle Arti di Carrara, dell’Ateneo di Venezia, ecc., stampato a Milano nel 1830 in quattro volumi. Titolo assai ambizioso, che dichiara apertamente la vastità della materia e degli interessi che l’autore vi ha fatto confluire, dalle arti maggiori a quelle decorative e minori. L’opera dovette avere, come meritava, un buon successo e risulta ancora molto presente in tante biblioteche pubbliche, in Italia e all’estero. Inoltre basta uno sguardo a una qualsiasi moderna bibliografia di tale settore, su di un problema o su di un artista, edita ancora recentemente non solo in Italia, per sorprendervi spesso presente il nome del nostro Ticozzi, con il rinvio al volume e alla pagina in cui quel tema o quell’artista sono trattati. Certamente i progressi odierni degli studi sono stati enormi, ma comunque il contributo del Ticozzi resta ancora di una qualche utilità, di qualche interesse. La sua fatica dunque non è relegata nella solida polvere delle ricerche ormai superate e inutili, anzi per molti aspetti minori o proprii della sua epoca, il Dizionario risulta ancora una fonte consistente di notizie e di valutazioni. La bussola di giudizio cui Ticozzi si àncora resta sempre il canone rinascimentale e vasariano, ma questo per fortuna non gli impedisce di avere attenzione per ogni più differente esito artistico, per molti aspetti tecnici e formali ancora importanti.

Vorremmo allora dare la parola proprio a lui, al Ticozzi, e verificarne il polso di studioso riprendendo due schede dal primo volume della sua opera, quella dedicata al Caravaggio, artista oggi il più ammirato, e quella dedicata ad Andrea Appiani, lombardo e contemporaneo dell’autore.

AMERIGHI (Michelangelo) nacque in Caravaggio, grossa terra del territorio milanese oltre l’Adda, l’anno del 1560 da un povero muratore, che lo incamminò da fanciullo nell’arte sua. Ma un giorno che stava stemprando l’intonaco, vide lavorare alcuni pittori a fresco, e gli venne voglia di essere pittore. Si acconciò con diversi maestri, ed all’ultimo col cavaliere Arpino, che in breve lo vide suo emulo. Con certe terribili ombre, con grande tumulto di ombre e di lumi, con quei tratti a macchia che non lasciano distinguere i contorni, con quelle sue ignobili minacciose figure sorprese il pubblico, e prima del pubblico il cardinale Delmonte, che, secondo il costume de’ mecenati senza gusto, prese a proteggere le sue stravaganze. Questo mal seme di nuovo dipingere infettò tutte le scuole: e perfino il Valentino, il Guercino, e lo stesso Guido, che per altro non tardò a ravvedersi, si lasciarono sorprendere. Ad ogni modo non si possono negare al Caravaggio grande ingegno e somma conoscenza degli effetti dell’arte. I suoi quadri dei tre giuocatori, dei suonatori e del cantante, e pochi altri, sono cosa che sorprendono per l’effetto e per l’artifizio del dipingere. Uomo brutale, intrattabile, tutti sfidava a duello, tutti ferocemente insultava. Avendo ucciso un suo conoscente, fuggì da Roma a Napoli, indi a Malta, dove in premio del ritratto del gran maestro fu creato cavaliere, poi imprigionato per una disfida. Tornato a Napoli gli fu da un uomo da lui insultato sfregiato il viso. Tornando a Roma e perduta ogni cosa, postosi in cammino a piedi, fu sorpreso da febbre maligna, che lo trasse al sepolcro in età di 49 anni.

Poche note aggiungiamo a tale esposizione. Il pittore Valentino è Valentin de Boulogne, artista caravaggesco del seicento francese, mentre per Guido si tratta del bolognese Reni. Più importane invece che il giudizio di decisa stroncatura del grandissimo Caravaggio (il “mal seme di nuovo dipingere”) non ci deve sorprendere, quando si pensi che la esatta comprensione critica del tormentato pittore prende avvio solo nel secondo Ottocento e troverà pienezza a partire dagli studi del secolo scorso di Roberto Longhi. Inoltre in epoca ancora neoclassica è comprensibile quanto l’antirinascimentale e anticlassico Caravaggio, che aveva fondato il realismo seicentesco, dovesse apparire insopportabile e stravagante. Tuttavia l’equilibrio del Ticozzi ci appare in parte salvo per quel riconoscimento di “grande ingegno (cioè inventiva) e artifizio (cioè perizia tecnica) del dipingere” che egli non trascura di rilevare, anche se poi viene esemplificato con il ricordo di tre opere I bari, oggi negli Stati Uniti, il Gruppo di musici (al Metropolitan Museum), e forse il Suonatore di liuto ora a San Pietroburgo: tre opere della prima fase del pittore, di cui per altro a sorpresa risulta trascurato il ricordo della ‘milanese’ Canestra di frutta dell’Ambrosiana. Infine non sono imputabili al Ticozzi gli errori sulla cronologia biografica del Merisi, solo recentemente definita, e il giudizio problematico sul collezionismo del cardinal Francesco Del Monte. Vi ritroviamo insomma il Ticozzi coerente rappresentante del suo momento ideologico e critico che non poteva che generare una sostanziale incomprensione per il grande rivoluzionario che fu Caravaggio. Ben differente è l’attenzione che egli dedica invece a uno degli artisti più importanti della sua epoca, di cui era stato amico, Andrea Appiani:

APPIANI (Andrea) nasceva del 1754 in Bosisio, villaggio del territorio milanese, posto in salubre e ridente clima dall’immortale Parini leggiadramente lodato. A tutti è noto a quale infelice condizione fosse ridotta in Milano la pittura quando nacque l’Appiani, e basterà dire che si dovettero chiamare da lontane parte Traballesi e Knoller, per diversi rispetti valenti pittori, ma non tali da ritornare alla nostra città la gloria pittorica de’ precedenti secoli. Raffaello Mengs e Pompeo Battoni in Roma e qualcun altro in Pesaro, in Verona ed altrove, ma troppo lontani dall’adeguare in merito i due primi, avrebbero potuto dare utili ammaestramenti al giovinetto pittor milanese, che fu costretto a frequentare alcuni mesi la scuola del nostro pittore De Giorgi. La vista della Cena del Vinci e di altri eccellenti lavori, onde abbondava la nostra città, dei Luini, del Gaudenzio, di Cesare da Sesto, dei Campi, dei Crespi, del Moretto, di Paris Bordone, ec, lo fecero accorto, che seguendo il De Giorgi non avrebbe presa la buona via: e sulle opere de’ sommi maestri del miglior tempo dell’arte formò da sè quello stile castigato, e prese le belle forme ed il colorito che aver non poteva dai viventi maestri.

Alcuni somigliantissimi ritratti e pochi quadri storici di non grandi dimensioni eseguiti nella prima gioventù furono non dubbiosi saggi delle eccellenti cose che fatte avrebbe in più matura età. Avvicinavasi ai trent’anni quando fece la santa Elisabetta per la chiesa parrocchiale di Gambolò e l’Alcide al bivio per commissione d’un illustre personaggio, le quali opere lo fecero riguardare come il miglior pittore che avesse Milano, e dire a Giuseppe Parini, che Mengs e Battoni più non erano gli ultimi de’ grandi pittori italiani.

Nel 1792 gli veniva affidato l’importantissimo lavoro di dipingere a fresco i pennoni ed i due archi murati della cupola di santa Maria presso san Celso in Milano. Vedendo che doveva porsi in confronto di tanti eccellenti artefici che ne’ migliori tempi dell’arte ornarono così ricco tempio di nobilissime pitture, volle, prima di cimentarsi in così pericoloso lavoro, conoscere gl’inimitabili freschi del Correggio in Parma, di Michelangelo, di Raffaello, di Annibale Carracci in Roma, e di altri egregi artisti in altre città; indi in principio del 1795, apparecchiati i cartoni, eseguì in tre soli mesi i più bei freschi che da due secoli in poi si facessero in Milano.

I grandi ingegni appartengono a tutte le nazioni, e le politiche vicende contribuiscono ad accrescere loro celebrità. Andrea Appiani fu nel 1797 eletto membro legislativo della Repubblica Cisalpina; nel 1802 uno dei dugento del collegio elettorale dei dotti; in appresso venne ammesso nell’Istituto nazionale di scienze, lettere ed arti, fatto cavaliere della legione d’onore e della corona ferrea, membro dell’accademia di Belle arti in Milano, primo pittor reale, ec.

Ora verrò accennando le sue principali opere senza obbligarmi a verun ordine cronologico. Fece all’olio per la chiesa parrocchiale di Alzano presso Bergamo il quadro d’altare rappresentante l’incontro di Rachele al pozzo, di cui pubblicò nel presente anno una bellissima stampa in rame l’egregio intagliatore Giovita Garavaglia; un altro quadro di altare per la parrocchiale di Oggiono; i quadri di Rinaldo e d’Armida, di Achille, del Congresso degli Dei, della Toeletta di Giunone ornata dalle Grazie; quattro quadri a tempera rappresentanti il Ratto d’Europa per il conte Silva, che ora vengono intagliati dal valente professore Paolo Caronni sopra disegni del celebre Raggio; il sipario del teatro filo drammatico di Milano; molti ritratti all’olio d’illustri personaggi viventi, che non permettono, per così dire, di desiderare in tal genere più perfetti lavori; la Cena in Emmaus eseguita per la Società degli albergatori di Milano, che ora si va intagliando sopra disegno del detto Raggio.

Appartengono ai tempi che precedettero i freschi della Madonna presso s. Celso quattro cavalli dipinti a fresco nella medaglia della volta d’una sala della Pinacoteca, il Trionfo di Imeneo nella volta d’un gabinetto del palazzo Roma, varj rabeschi imitanti arazzi nel palazzo di corte, nella real villa di Monza e la stupenda medaglia in una sala del palazzo Belgiojoso, ora villa reale in Milano, ec.

Ma troppo lunga opera richiederebbe un esatto elenco di tutte le opere del nostro Andrea, né lo consentirebbe la natura di questo dizionario. Ci limiteremo pertanto a dar contezza dei magnifici freschi eseguiti negli ultimi anni della sua vita pittorica nelle camere della real corte di Milano. (…)

Imitatore di nessuno, dotto e castigato al pari di Raffaello Mengs, ai pregi dello studio aggiunse quelli della natura che fecero di Pompeo Batoni un degno emulo dell’illustre pittore alemanno. Alle grazie dello stile correggesco unì la nobiltà raffaellesca, e talvolta la grandiosa maniera di Baccio della Porta; e se non giunse all’apice della perfezione, talmente vi s’accostò, che pochi passi rimangono a fare al fortunato ingegno chiamato a così sublime destino.

In aprile del 1813 fu colpito da apoplessia, che non lo privò di vita, ma gli rapì il libero esercizio della mente e delle membra; e senza speranza di miglioramento visse infermo ed afflitto fino al dicembre del 1817, in cui mancò alla gloria dell’arte.

Quanta diversa attenzione egli riserva ai due artisti! Ma non si pensi che sia solo un suo limite, perché ogni operazione storico-critica è sempre anche un’operazione individuale e opinabile, datata, che importa una assunzione di responsabilità. Intanto la adesione all’arte dell’Appiani è sì completa ma non senza il lieve velo di una qualche appena accennata attenuazione. Del pittore brianzolo si delinea la formazione regolare, tra modelli manieristi anche lombardi (in cui poteva essere ascritto anche Gaudenzio Ferrari) e modelli europei della sua epoca, la sua dedizione al lavoro e all’arricchimento culturale, che lo portò a un intensa operosità apprezzata dalla comunità in cui visse. Non secondario compare il nome del poeta Giuseppe Parini, cui furono legati sia il pittore che il nostro critico, che ebbe un ruolo da protagonista nella formazione del gusto artistico della Milano settecentesca. La scheda sull’Appiani ci mostra insomma un Ticozzi capace di essere sia biografo che catalogatore che interprete dell’opera di un artista, agevolato in tale occasione ovviamente dalla prossimità. Ma la fatica del nostro autore nel complesso è davvero imponente. Sorprende la quantità di dati che egli ha riunito nei quattro volumi della sua opera, dall’arte antica a quella contemporanea, dalle arti maggiori a quelle decorative e minori, certo non sempre con dati di prima mano né sempre con sicure intuizioni critiche, ma non senza una utile volontà definitoria e catalogatrice.

Ma che ci può dire ancora ai nostri tempi, in conclusione, il simpatico Ticozzi? La controversa Italia di oggi che cosa vi può rimeditare? L’esempio del nostro studioso ci dice ancora una volta che la ricchezza su cui questo paese può sempre contare, quella ricchezza che se giustamente valorizzata non avrebbe nulla da invidiare al petrolio (chè al contrario a differenza del prezioso combustibile fossile, non va ad esaurirsi e richiede solo di essere preservata e valorizzata), e cioè quello straordinario patrimonio artistico che abbiamo la invidiata fortuna di detenere, richiede innanzitutto il nostro amore e la nostra passione; ma questi nobili sentimenti procedono sempre e soltanto dalla adeguata e corretta conoscenza, che deve essere il primo gradino di avvicinamento a ogni valorizzazione: di questo e non altro ci parla ancora la improba fatica di Stefano Ticozzi.

                                   

                                                                                                            Renato Marchi


IL GRINZONE n.33