VACANZE D'ALTRI TEMPI
Ricordi (sparsi) di un glottologo (in pensione) che, ‘bambinetto di città’, fu in vacanza al ‘Ponte della Folla’ negli anni ’50 del sec. XX. *
Appartengo alla ‘Classe 1946’ e mi vanto, quindi, di essere uno dei primi bambini dell’Italia repubblicana e, anche, uno dei primi babyboomers.
Per la precisione, sono ‘il’ figlio del ritorno a casa di Augusto Banfi: mio padre è stato uno dei numerosi IMI (Internati Militari Italiani) che, richiamato alle armi quale ufficiale di complemento e di stanza in Dalmazia, dopo l’8 settembre del 1943 fu ‘catturato’ (questo è il termine tecnico che si legge sul suo libretto-matricola militare) dai nazisti a Split/Spalato e – stivato, insieme ad altri sventurati, in un vagone-bestiame – fu deportato, prima, in un campo di concentramento in Polonia (a Beniaminowo, forse), poi in un altro, definitivo campo concentrazionale in quel di Wietzendorf, tristissimo borgo del Lüneburg, landa grigia e tetra del circondario di Amburgo dove, in un terreno alluvionale alle foci dell’Elba, stava un campo nazista destinato ad accogliere gli ufficiali italiani che non avevano voluto aderire alla nazi-fascista RSI (Repubblica Sociale Italiana). Il campo di Wietzendorf era (ed è) tristemente noto come ‘Oflag 83’ e, navigando su internet, si trovano molte testimonianze di chi ha avuto la mala sorte di dovervi stare; e molte di tali testimonianze sono – va da sé – impressionanti per ciò che, in termini di crudeltà e disagi inflitti agli ‘ospiti’, è dato leggere.
Mio padre rimase prigioniero, internato a Wietzendorf, fino a metà aprile del 1945 quando, liberato quel campo da contingenti inglesi, potè egli iniziare – con compagni d’avventura e con mezzi di assoluta fortuna; cioè a piedi – il rientro in Italia, dove giunse, per la precisione, alla fine d’agosto di quell’anno. Lo attendevano sua moglie (e mia madre), Maria Francesca Rossi e la loro figlia (e mia sorella) Bianca. Io sarei nato meno di un anno dopo: figlio del rientro a casa di un uomo fortemente provato dagli avvenimenti di quegli anni tragici e però allora, lui e mia madre – entrambi insegnanti – inseriti, come tanti altri connazionali, nelle dinamiche di un’Italia ofondamente lacerata, disorientata, impoverita e tuttavia riscattata e non priva di energie: premessa per la ricostruzione di un Paese che avrebbe sperimentato per altro, qualche anno dopo, l’inizio del cosiddetto boom economico.
I miei primi ricordi – molto precoci (risalgono al 1948, quando non avevo ancora due anni) – sono, appunto, quelli di una normale vita famigliare, in una casa dignitosa che affacciava (e ancora sta là) sulla strada che dal centro di Lecco porta al trecentesco visconteo ‘Ponte vecchio’: quello, un tempo turrito e suggestivo, lungo il quale erano passati senz’altro i lanzichenecchi …; e quello sul quale erano senz’altro anche transitate – mi è sempre sempre piaciuto immaginare – le carrozze di Casa Manzoni, che, provenienti da Milano, portavano ‘quel’ piccolo (e poi cresciuto…) Alessandro alla volta del Caleotto, luogo dell’infanzia e della prima giovinezza del futuro, grande scrittore; luogo per i ‘fatale’, per molti motivi, e anzi fondamentale nella costruzione della sua identità; luogo del quale egli ebbe comunque sempre memoria vivissima: alimento per pagine sublimi di un romanzo che ha dato lustro eterno al ‘borgo’ di Lecco prossimo a diventare ‘città’.
Così, nel primo capitolo del Fermo e Lucia, a proposito del territorio di Lecco, il Manzoni scriveva:
“ … la giacitura della riviera, i contorni, e le viste lontane, tutto concorre a renderlo un paese che io chiamerei uno dei più belli al mondo, se avendovi passata una gran parte della infanzia e della puerizia, e le vacanze autunnali della prima giovinezza, non riflettessi che è impossibile dare un giudizio spassionato dei paesi a cui sono associate le memorie di quegli anni”.
Bene, qualche ulteriore precisazione: ho vissuto a Lecco fino alla prima età adulta; a Lecco ho studiato (al Liceo classico ‘A. Manzoni’); a Lecco sono cresciuto, affettivamente, culturalmente e politicamente. Poi, per motivi professionali, mi sono ‘inurbato’ a Milano, dove ho lavorato come glottologo in due università milanesi: dapprima come ricercatore all’Istituto di Glottologia e Lingue Orientali della Statale, poi – dopo dodici anni passati all’università di Trento come professore prima associato e poi ordinario di Glottologia alla Facoltà di Lettere e Filosofia –, di nuovo a Milano, quale professore ordinario di Glottologia e Linguistica Generale nella nuova università di Milano-Bicocca, nata alla fine degli anni ’80 del secolo scorso come ‘sdoppiamento’ della Statale e poi, dopo un decennio, divenuta Ateneo statale, ‘a sé’. Adesso, dopo tanti anni di insegnamento e di attività scientifica, sono felicemente in pensione.
Fin da piccolo ho avuto sempre – forse un segno del destino? – spiccato interesse per le ‘parole’, per la loro ‘forma’ associata a persone e a circostanze nelle quali le ‘parole’ erano/sono pronunciate/dette: ricordo che, da bambino, ponevo a mia madre precisi quesiti, del tipo “perché ‘casa’ si dice così?”, “perché ‘acqua’ si dice così?”, “perché ‘bicchiere’ si dice così?’, ecc. Ero, insomma, già da piccolo, un insaziabile curioso di cose linguistiche.
Dall’estate del 1950 – quando non avevo quindi ancora compiuto i quattro anni, e per circa un decennio – buona parte delle vacanze le ho passate al ‘Ponte della Folla’ (forma italianizzata di un locale ‘Pónt de la Fóla’), nel comune di Pasturo: ‘Ponte della Folla’, luogo per altro desertissimo … e già allora, bambino, mi ponevo il problema della palese, bizzarra discrasia tra l’aspetto selvatico e solitario di quel luogo, privo di ‘gente’, e quel toponimo che, invece, la ‘gente’/la ‘folla’ la evocava … Molto in là con gli anni avrei capito che quella folla (in realtà nel dialetto valsassinese è … fóla) non c’entrava nulla con ‘la’ folla, nella normale accezione dell’italiano … e che quel toponimo, rinvia piuttosto, forse, alla presenza antica, in quel luogo, di una ‘follatura’ (di stoffe di lana) attivata, come nel caso dei mulini, dalla forza motrice di un corso d’acqua: là, per la precisione, dalla corrente impetuosa del (temibile, perché capriccioso) torrente Pioverna; o, forse, quel toponimo è connesso invece con una (incerta) voce germanica (longobarda?) dal semantismo ugualmente incerto. In ogni modo ‘Pónt de la Fóla’’ è toponimo presente anche altrove: ad es. a Scarenna (frazione del comune di Asso si ha un analogo ‘Púnt de la Fóla).
Ripensando a quelle mie vacanze di anni d’infanzia la mia memoria richiama e rievoca il grido acuto che una fiera contadina (di cui dirò più avanti) – una ‘bergamina’ (come sentivo dire, da quelle parti), lei, padrona e regina di prati e di armenti –, lanciava a me e ai miei compagni di giochi (noi, piccoli bambini ‘urbani/’di città’, trapiantati per poco tempo nel cuore della Valsassina) per intimarci, con fare imperioso che non ammetteva repliche, di non calpestare l’erba: quel grido suonava (più o meno) ‘fó de l’irba, fó de l’irba!’. E, mentre spaventatissimo e insieme a tutti gli altri compagni di giochi, obbedivo mi chiedevo però, pur anche tremebondo: ma perché mai costei dice ‘irba’ invece che ‘erba’? E perché mai dice ‘fó’ e non ‘fuori’? Non lo sapevo allora; ma mi ponevo, in fondo, un problema d’ordine (socio-)linguistico, legato al confine tra dialetto e lingua, varietà ‘in contatto’.
Il ‘Ponte della Folla’ fu insomma per me luogo di vacanze. Vacanze povere, semplici, come si conveniva in quegli anni immediatamente successivi alla fine del durissimo secondo conflitto mondiale. E però vacanze piene di memorabili sorprese: al venire dei primi caldi, con mia sorella Bianca e con mia cugina Lella (loro, più grandi di me di qualche anno), affidati ad adulti di riferimento, si lasciava Lecco ‘in convoglio’: si saliva – arrancando su un’improbabile, cigolante corriera (della mitica SAL ‘Società Automobilistica Lecchese’) – lungo l’erta via verso San Giovanni e Laorca. Si passava un’osteria, sulla cui facciata stava una scritta che suonava più o meno così, e che mi piaceva molto (di nuovo… la suggestione delle ‘parole’ …): ‘Fermati o passegger e bagna il becco / che a metà strada sei tra Ballabio e Lecco’; e la scritta – mi si dice – c’è ancora, non più dipinta bensì incisa su una lastra di lamiera murata sulla facciata dell’edificio). Si arrivava a Ballabio – alcuni scendevano per andare verso Morterone o i Piani Resinelli – ; si proseguiva poi verso la severa piana di Balisio (che Leonardo da Vinci aveva probabilmente visto; o almeno a me piaceva/piace immaginare che così sia stato) e si arrivava infine, infine e appunto, al ‘Ponte della Folla’.
Noi stavamo (in affitto) in una casa un po’ oltre quel ponte, sul lato sinistro della Strada Provinciale che portava/porta verso il cuore della Valsassina. Quella casa a due piani, il tetto a spiovente, stava (e credo stia ancora) a ridosso di un fitto bosco, ai margini di una modesta radura: noi stavamo al primo piano, quattro locali (uno, con un bel camino) e un terrazzo, che a me pareva enorme. Dietro la casa, ‘quel’ bosco, pieno di misteri; davanti alla casa, due speroni rocciosi: uno, piuttosto consistente, un altro più basso. Di fianco alla casa, ruderi inquietanti di un edificio distrutto – si diceva – da una frana; di fianco a quei ruderi, una casetta (con una stalla, al piano terra) sul cui fianco una piccola scala portava alla sommità di un grande masso roccioso confinante, da un lato con ‘quel’ grande bosco, dall’altro con l’articolato complesso di edifici dell’Industria casearia dei F.lli Mauri.
Insisto sulla ‘geografia’ dei luoghi, poiché i miei ricordi sono legati proprio alla disposizione ‘spaziale’ di quelle ‘persistenze’: innanzi tutto, ‘quel’ bosco – il primo bosco della mia vita – fonte di mille suggestioni: un bosco ‘vero’, simile a quello delle fiabe (Pollicino, Cappuccetto rosso, Hänsel e Grätel …): alberi solenni, arbusti amichevoli, sentieri impervi, piccole radure, rocce minacciose, piccole grotte; animali diversi, ghiri, scoiattoli, molti uccelli, ecc.; un luogo ricco di potenziali pericoli; ma un luogo dove noi bambini costruivamo capanne, piccoli rifugi, spazi ‘nostri’, privati, gelosamente ‘difesi’.
Davanti alla casa, due speroni rocciosi: il più alto, era facile palestra per rapide arrampicate; l’altro, più basso, era luogo di semplice sosta. Le rovine dell’edificio distrutto dalla frana era uno spazio severamente ‘vietato’ a noi bambini: dentro (ed era vero) c’erano temibilissime vipere. La casetta posta a fianco di quei ruderi ospitava una stalla: vi stavano ricoverati talvolta maiali (i primi che mi fu dato di vedere) e anche mucche: mi colpì una volta – esperienza indimenticabile – la vista di un vitellino appena nato, che a stento si reggeva sulle zampe. Dal grande sperone roccioso confinante con le ‘casere’ dei Mauri si andava a spiare l’andare e venire degli operai e delle operaie: loro ben coperti, anche d’estate, per reggere il freddo e l’umidità delle grotte naturali ove ‘maturavano’ i formaggi. E ‘dai Mauri’ al venir della sera, si andava con un bidoncino (di alluminio, a chiusura ermetica), a comprare il latte; qualche volta, oltre al latte, anche dei formaggi (i ‘fioroni’, tozzi cilindri di pasta fresca; e altro ancora: i ‘caprini’, ‘taleggi’, ecc.).
Ma c’era dell’altro. Dalla nostra casa, a una certa distanza, si vedeva la già menzionata Strada Provinciale; per lunghi anni essa fu non asfaltata, quindi bianca e polverosa e sostanzialmente priva di traffico. Ai bordi di quella strada stavano (e penso ancora ci saranno) due altre costruzioni: sulla destra, in direzione di Pasturo e Introbio, c’era (e ci sarà ancora, credo) una cascina, abitata solo d’estate. Quella cascina dominava (e domina ancora, credo) un prato in leggero declivo e, dalla strada, un facile sentiero permetteva d’arrivare a una fonte d’acqua ferruginosa (detta ‘Tartavalîn’ – ne parla l’Orlandi nelle sue Memorie (p. 205) – ritenuta terapeutica e concorrenziale con quella più nota di Tartavalle) e poi al torrente Pioverna (che sarebbe diventato presto il ‘mio’ esotico Mekong …); sulla sinistra stava (e ci sarà ancora, credo) una casa a un piano, abitata invece continuativamente da una simpatica famiglia, custode di un curatissimo orto prospiciente la strada.
A fianco di quella casa in posizione leggermente arretrata c’era una stalla, calda e umida; vi stavano alcune mucche, dai nomi divertenti e riottosissime all’idea di farsi mungere da noi bambini ‘foresti’. Da noi, quindi, assolutamente incapaci di gestire la delicata, bucolicissima operazione; ma anche da altri ‘foresti’ ragazzi e bambini, figli di amici dei miei genitori: venivano a trovarci da Lecco, da Pusiano, da Inverigo, e persino … da Milano. Tra i bambini ‘foresti’ ho bene in mente anche i Vizzardi, stavano a Rovato ed erano i nipoti delle sorelle Mauri: Franco e Fulvio (maggiori di me), Mario (più o meno coetaneo) e i due gemelli Emilio e Maria Pia (più piccoli di me).
Davanti alla porta della stalla stava, fumigante, un grande mucchio di letame (non sapevo, allora, la nobile connessione della parola ‘letame’ con un importante, sacerrimo termine del lessico agricolo-pastorale latino): attorno al letame si scioglievano rivoli di liquame maleodorante.
In quegli edifici abitavano due famiglie: nella prima, gli Arrigoni (la madre, Dora; il padre, Ambrogio): venivano da Pasturo, avevano tre figlie dai capelli di un bel rosso-rame (Enza, Aura e un’altra, più piccola, Maria Teresa); e un figlio (se ricordo bene, Arrigo), maggiore delle ragazze, anche lui dai capelli rosso-rame. Nella seconda stavano i Civilini: il padre (Angelo) era addetto alla manutenzione delle strade: era chiamato ‘lo stradino’, la madre (Maria), donna attivissima (chiamata, per consonanza col marito, ‘la stradina’), curava casa, orto, galline, conigli; i due figli, Carlo (più grande di qualche anno di me) e Angela (mia coetanea, mi pare di ricordare), laboriosissimi e padroni assoluti del loro territorio. La stalla (con le mucche) erano gestite dalla ‘bergamina’ che ho già evocato, e di cui ancora dirò.
Io, bambino di città, ero impressionato dalla fierezza e dalla sicurezza con cui ‘quei’ bambini, padroni di ‘quel’ lembo di Valsassina, gestivano il rapporto con il loro spazio: mi impressionava soprattutto il vederli andare in giro – dappertutto, anche nei boschi – a piedi nudi. Mi colpiva il fatto che riuscivano ad arrampicarsi su tutti gli alberi con un’agilità incredibile; che, ardimentosi, scalavano speroni rocciosi; che, preparatissimi, conoscevano il bosco in ogni minimo dettaglio. Erano insomma guide sicure e insieme prudenti: individuavano nidi degli uccelli, disponevano qua e là trappole (con il vischio), raccoglievano frutti selvatici, sapevano dove era possibile trovare ciclamini, ne raccoglievano i bulbi e creavano, con legnetti disposti in modo sapiente, geometrici cestini, ricoperti di ‘teppa’ che poi cercavano di vendere, appostandosi sulla strada, ai (rari) vacanzieri in transito. E quei bambini, ovviamente, parlavano tra di loro in dialetto: la cosa mi incuriosiva, ne coglievo la dimensione straniante.
Quel loro dialetto, così diverso da quello ‘urbano’ che io comunque sentivo parlare, anche in casa mia, dai miei genitori tra di loro e poi dalle zie, dagli zii, tra di loro; mai però quando si rivolgevano a noi bambini. E però il dialetto della mia cerchia famigliare mi pareva – mi è sempre parso – ‘amichevole’; non così quello che sentivo al ‘Ponte della Folla’: in particolare, ritorno a quel grido imperioso della ‘bergamina’, della signora Cecca (in realtà: ‘la Cèca’; se ricordo bene, di cognome faceva Ticozzi), fiera contadina che d’estate veniva, coi suoi figli (uno si chiamava Oliviero, un altro Angelo; e c’era anche una ragazza, molto bella e gentile, di cui ora non ricordo più il nome), a curare i prati prospicenti la nostra casa e a gestire gli animali nelle loro stalle.
Lei, ‘la Cèca’, era lei che a noi bambini ‘foresti’, incautamente scorazzanti per i prati, gridava con tono perentorio e minace fó de l’irba; era lei che ci obbligava a rapidissimi fuggi fuggi … Intanto, mi chiedevo perché mai la ‘mia’ erba fosse diventata irba e il ‘mio’ fuori fosse diventato fó. Nulla sapevo ancora delle meraviglie del mutamento fonologico dal latino volgare ai dialetti italo-romanzi. E comunque era sempre lei, ‘la Cèca’, che impediva a noi bambini di saltare allegramente nei mucchi di fieno, geometricamente disposti nei prati da lei tagliati …: ‘la Cèca’, insomma, (amabile…, a pensarci bene) terrore e spauracchio di noi bambini di città per qualche tempo, in estate, accolti al Ponte della Folla.
Banfi Emanuele**
* Un vivo ringraziamento va a Marco Sampietro per l’attenta lettura di una versione preliminare del testo e per i suoi preziosi consigli che ho volentieri seguito.
** Oltre agli incarichi accademici presso l’Università, di cui si parla nell’articolo, Emanuele Banfi è stato, tra il 1991 e il 1998, Segretario nazionale della Società di Linguistica Italiana, di cui è stato Presidente (dal 2011 al 2015); è anche membro della Società Italiana di Glottologia e di altre Associazioni del settore.
Nel 2019 è stato cooptato dagli accademici della fiorentina Accademica della Crusca quale accademico corrispondente italiano.
IL GRINZONE n. 77