Pasturo, settembre 1937
In Antonia Pozzi poesia e fotografia rappresentano due voci di un'unica verità, testimonianza entrambe della sua tensione irrimediabile a vivere la vita come creazione. Nella ricerca di un fondamento esistenziale, l'immagine si rivela come uno specchio dell'anima, capace di esprimere quel doloroso desiderio di autenticità e assoluto che la porterà oltre. (Ludovica Pellegatta).
Nevai
Io fui nel giorno alto che vive
oltre gli abeti,
io camminai su campi e monti
di luce –
Traversai laghi morti - ed un segreto
canto mi sussurravano le onde
prigioniere-
passai su bianche rive, chiamando
a nome le genziane sopite -
Io sognai nella neve di un'immensa
città di fiori
sepolta -
io fui sui monti
come un irto fiore -
e guardavo le rocce,
gli alti scpgli
per i mari del vento -
e cantavo fra me di una remota
etate, che coi suoi amari
rododendri
m'avvampava nel sangue -
1° febbraio 1934
Ungaretti, scrivendo della ricerca della parola poetica che dica l’essenza di sé, evoca un “porto sepolto”, dal quale il poeta-palombaro, che vi si è calato alla ricerca del “tesoro”, riemerge, ma non con tutto il tesoro, perché resta negli abissi dell’io un “nulla d’inesauribile segreto”; il mistero profondo della vita è, infatti, infinito e, nonostante il faticoso lavoro della ricerca della parola autentica per dirlo, rimane quasi indicibile.
Non con minore intensità, Antonia Pozzi parla di “parole – vetri”. Pensare al vetro è pensare a qualcosa di molto fragile: e che c’è di più fragile della parola? Se appena la sposti nel verso, può fargli cambiare significato; se la pronunci con un tono di voce piuttosto che con un altro, può diventare dolce, imperiosa, supplichevole; se la usi in modo improprio, può diventare ambigua, può incoraggiare o scoraggiare, può attirare o respingere. La fragilità può trasformare il vetro in molteplici piccoli frammenti, che a nulla servono più e che anzi possono essere occasione di pericolo; possono, al massimo, riflettere ancora un po’ di luce, ma è un “lume” che rimane “in terra” e che non crea immagini, non ri-dice la verità, non rispecchia nessun “cielo”, non illumina nessuna “oscura strada”: un lume inutile. Antonia Pozzi vuole, invece, che le sue parole, la sua poesia quindi, rispecchino il suo “cielo”; ed è importante notare che parla di cielo, non di sé o, meglio, parla di sé, ma della parte più alta di sé, quella che sente più veramente sua, come realtà e come aspirazione; dare ai propri sentimenti, desideri, sogni, vita interiore, il nome di “cielo” è avere coscienza che essi si collocano al di sopra della più banale quotidianità, al di sopra di quella “terra”sulla quale giacciono i frantumi della vetrata. Nella persistenza del lume sparso dai frantumi si può forse leggere la resistenza delle parole non autentiche, che vorrebbero, comunque, imporsi, entrare nella poesia, ma che Antonia rifiuta, perché non rispecchiano il suo “cielo”, non dicono la sua verità, il suo mondo segreto, la sua più profonda interiorità: e non solo perché frantumi; infatti, anche vetri ancora intatti non riflettono”fedelmente” se stessa, impedendo la relazione con l’altro da sé, deformando la verità su di sé per sé e per gli altri. E' il dramma della creazione poetica, che non sempre, anzi raramente, si avverte quando si leggono le poesie di Antonia Pozzi, così aeree, così lievi, o così dure a volte; e invece c'è e bisognerebbe tenerlo sempre presente.
Onorina Dino
Ho pensato di dedicare qualche puntata dell’appuntamento consueto, con la poesia di Antonia Pozzi sul tema della montagna, non più ai testi poetici veri e propri o solo ad essi, ma a dei passi di prosa, che si rivelano a loro volta vere pagine di poesia. Sarà così Antonia stessa a farci conoscere il suo rapporto con la montagna, senza la mediazione del mio commento. Le pagine che Antonia dedica alla montagna, qualsiasi essa sia, quella più prossima a Pasturo, come la Grigna, o quella più alta e più lontana delle Dolomiti, danno al lettore la misura e la profondità dei suoi sentimenti: il sentimento della vita, innanzi tutto, per la fatica e la lotta che la montagna esige per essere conquistata, ma anche della gioia e della pienezza che dalla conquista derivano; il sentimento della terra, come radicamento e appartenenza, fino a diventare un legame quasi umano con essa, come con una creatura vivente, con la quale si possa comunicare e scambiare emozioni e fremiti; il sentimento dell’elevazione spirituale e morale, della ricchezza interiore, dell’esaltazione dello spirito che la montagna suscita con il suo splendore e le sue ombre, con le sue cime e i suoi precipizi e i suoi fiori; il sentimento vivido e intenso dell’umano e della sua ricchezza, che comunica anche senza parole, con uno sguardo, con lo stesso silenzio; il sentimento della solitudine e della gioia che da essa scaturisce, perché solo nella solitudine ci si misura con se stessi e si può quindi entrare in relazione profonda con la realtà circostante e con gli altri.
Sentiremo, alla fine, che il “ tremito leggero del silenzio”, che pervade il brano che pubblichiamo, traendolo dalle Lettere (Archinto, 2002), è lo stesso tremito che trascorre nell’anima di Antonia, che si fa a sua volta silenzio di contemplazione, capace di com-prendere, ossia di accogliere e di assumere in perfetta sintonia, dentro di sé, le varie voci della bellezza, fatte di visioni o di suoni percettibili soltanto con l’occhio e l’orecchio dello spirito.
Pasturo, 28 agosto 1934
“[…] Al Breil rimasi fino al 10 di agosto: venti giorni molto intensi, benché a volte tetri e minacciosi; ora li ricordo come un miraggio lontano […]
Nelle mattine serene, salivo sola alla morena del Fürggen, che è cosparsa di fiori meravigliosi; e lì restavo per delle ore, nel sole violento.
A 3000 metri, sotto le immense pareti del Cervino, sola come la prima anima sulla terra, portata avanti da quel vento che non è neppur vento, che è come il tremito leggero del silenzio e che solo il fischio di una marmotta lacera o il cadere delle slavine.
Molto in alto fui soltanto due volte: in una giornata splendente sulle creste del Fürggen, che è facile facile, ma in uno scenario incomparabile; e in una orrenda giornata di nebbia e di neve, sulla becca di Guen, che non è difficile, ma dove ci si prova abbastanza sulla roccia. Giornata orrenda; ma siccome ero sola con Pellissier, la bravissima guida del Cervino, e dormimmo al rifugio dei Jumeaux (per la strada ci eravamo colti dei legni di rododendro morti per accendere il fuoco – Pellissier mi preparò la minestra, mentre io guardavo il tramonto e le valli lontane, azzurre delle prime ombre, e pensavo come è bella, com’è dolce la terra quando s’addormenta), credo che me ne ricorderò a lungo. Alla sera accesero dei fuochi, giù al Breil, ed anche noi incendiammo, su di una roccia, un fascio di paglia e le scintille volavano giù nella notte […]
Quando poi parlai della mia gioia della solitudine, qualcuno si stupì: chi mi capì e mi approvava senza parlare, solo col cenno dei suoi magici occhi azzurri, era Guido Rey. Che occhi, Lucia! Color pervinca, cielo dopo la tempesta, fiaba: si pensa ai secoli di luce sepolti oltre le vette, oltre le nubi. Si resta muti a guardarli, a berli, ci si perde in un prato di prodigiosa innocenza, in un fiume di silenzio. Oh la sua voce dolce di vecchio, nella sua casa di pietra e di legno! Le sue mani pallide, scarne, sul tavolo scuro di abete – o levate a benedire! Che bello, che bello, Lucia, avergli parlato, aver sentito che lui mi capiva, ch’era contento quando andavo a trovarlo! Che gioia vedere il suo fuoco, quella notte, su dal rifugio […]”.
Onorina Dino
Riflessi
Parole - vetri
che infedelmente
rispecchiate il mio cielo -
di voi pensai
dopo il tramonto
in una oscura strada
quando sui ciotoli una vetrata cadde
ed i frantumi a lungo
sparsero in terra lume.
26 settembre 1933