DA CANTU'A PASTURO: UNA STORIA RICCA DI ESPERIENZE
Entrambi “canturini”, lui originario del posto mentre lei trasferitasi, quand’era piccola, con la famiglia dal Friuli, dopo un periodo trascorso in Francia, dove il papà era emigrato come muratore. Stiamo parlando di Paolo Panzeri e di Mara Bidoggia, una delle famiglie che da circa due anni abitano “Casa Pozzi”, struttura che le suore Preziosine hanno dato in comodato d’uso all’Associazione “Mondo di Comunità e Famiglie” (MCF).
Il cammino da Cantù a Pasturo è stato ricco di esperienze e molto più lungo dei 50 km che separano le due località lombarde.
A Cantù frequentano entrambi le scuole fino alle Medie ma non si conoscono, anche perché fanno riferimento a due Parrocchie diverse. Dopo le Medie Paolo, nato nel 1955, inizia a lavorare prima come garzone e poi come panettiere, mentre Mara, nata nel 1961, frequenta l’Istituto Tecnico “Setificio” di Como. Entrambi entrano a far parte del gruppo “Operazione Mato Grosso” ed è lì che si incontrano, condividendo l’attività di volontariato. A giugno dell’81 si sposano ed insieme gestiscono il panificio dove già Paolo prestava servizio.
Alla fine del 1983, con la figlia Chiara di appena un anno, dopo aver conosciuto sempre a Cantù una comunità di famiglie aperta anche all’attività missionaria, la comunità del Pellegrino di don Alberto Vigorelli, decidono di chiudere l’attività, vendono il negozio ed iniziano l’esperienza con questa comunità, aderendo alla proposta di un periodo di missione di circa un mese in Africa, nel Burundi, dove si recano nel gennaio del 1984. Tornati, si consolida il loro sentirsi parte della comunità di cui condividono le modalità dello stare insieme, compresa la gestione della cassa comune, e l’apertura agli altri in particolare alle persone più in difficoltà anche nei paesi più poveri.
Così nel gennaio del 1985, con Chiara e Valeria di appena 4 mesi, assieme ad altre famiglie e volontari, ripartono per il Burundi, al Centro di Sviluppo Sociale di Butezi, un villaggio su un altopiano a circa 1600 metri di altezza. “Dopo il volontariato con l’Operazione Mato Grosso è stato per noi un passaggio quasi naturale condividere anche questa esperienza: ciascuno aveva una propria professionalità e un proprio settore cui dedicarsi, condividendo però insieme l’unitarietà del progetto. C’erano altre famiglie, singoli volontari, operatori in Servizio civile ed insieme gestivamo con alcuni medici ed infermieri un ospedale e contemporaneamente un laboratorio di meccanica e uno di falegnameria; personalmente poi mi occupavo del settore agricolo”. Accanto a tutte queste attività “tecniche” era fondamentale l’attenzione alla formazione umana. “Non era facile creare una mentalità di collaborazione fra gli abitanti, collaborazione che cercavamo soprattutto di testimoniare fra noi. Era un lavoro pionieristico, ci si rivolgeva a persone che non avevano sostanzialmente nulla e da parte nostra si condivideva quello che nel villaggio avveniva. Prima del nostro arrivo le donne dovevano scendere per parecchi chilometri per portare l’acqua fin su al villaggio con delle grosse anfore sulla testa; insieme abbiamo creato una conduttura così che l’acqua potesse arrivare direttamente…
Noi vivevamo in una casetta nel villaggio costruita con mattoni ‘cotti’ mentre gli altri abitanti si costruivano la capanna con mattoni ‘crudi’ (essicati al sole) che però erano attaccati dalle termiti, e quindi si è introdotto il forno di cottura per i mattoni…
Interessante il fatto che il sabato mattina tutti (gli abitanti e anche noi) si lavorava insieme per il villaggio: si sistemavano le strade o altro di cui si condivideva la necessità. Dobbiamo dire che abbiamo conosciuto un’Africa selvaggia, dove l’uomo bianco era indicato ai bambini come spauraccho (come da noi si parlava dell’uomo nero…), conseguenza anche della schiavitù cui i loro antenati erano stati sottoposti…”.
Fra l’altro Paolo segue direttamente un progetto attivato con la Facoltà di Agraria dell’Università di Milano: “Si trattava dell’introduzione di un suino frutto dell’incrocio fra la razza europea e quella locale; ad ogni famiglia veniva dato un maiale e si insegnava a costruire una piccola stalla per poter utilizzare il letame per l’orto e la coltivazione della manioca e dei fagioli.
Inoltre, siccome nell’Africa Equatoriale si alternano la stagione delle piogge e la stagione secca, era importante insegnare a tagliare l’erba nella stagione delle piogge e fare il fieno da utilizzare successivamente per nutrire le capre così da avere sempre anche la produzione di latte. Sono per noi cose elementari ma occorre pazienza per proporle e farle accettare a chi non le ha mai sperimentate”.
Mara invece si occupa prevalentemente della formazione con le mamme in materia di igiene e di allattamento al seno: “In quel periodo una nota multinazionale aveva in atto una campagna pubblicitaria molto spinta, per la verità anche molto discutibile, per la distribuzione del latte in polvere. C’era stato il disastro di Chernobyl e una sovrabbondanza di latte che non era possibile commercializzare nei Paesi Occidentali perché inquinato; per non buttarlo via veniva liofilizzato e mandato in Africa…”.
Nell’aprile del 1988, soprattutto perché Chiara doveva iniziare la scuola e lì non c’erano possibilità, decidono di rientrare in Italia, con le tre figlie (in Africa nell’agosto 1986 era nata Francesca), sempre avendo come riferimento la comunità di famiglie del Pellegrino. Paolo inizia in quel periodo una nuova attività come educatore, in ambito agricolo, presso i Guanelliani a Lora (Como).
L’anno successivo Mons. Bettazzi, vescovo di Ivrea, li coinvolge in un progetto di formazione rivolto ai volontari che intendevano andare in Africa o in altri Paesi. Occorreva una preparazione sia sul piano personale sia sul piano “tecnico” nei vari settori in cui si sarebbe operato. Paolo e Mara, con un’altra famiglia di Torino, sempre quindi all’interno di un’esperienza comunitaria, nel 1989 si trasferiscono in Piemonte presso il castello Albiano di Ivrea, che era stato donato al vescovo. Sviluppano vari progetti, in particolare Paolo nel settore dell’allevamento delle capre e della produzione di formaggio ma anche di alcuni lavori artigianali collegati, da riproporre in Africa. “Il maestro è stato Alberto Vassena, di Valmadrera, un uomo che trasmetteva, oltre alle sue conoscenze, il gusto e la passione per la propria attività”. Si sperimentano, inoltre, anche vari tipi di foraggio in funzione della produzione di latte così da averlo per periodi più lunghi e permetterne l’utilizzo anche per un graduale svezzamento dei bambini che altrimenti passavano direttamente dal latte materno alla farina di manioca con conseguenze a volte pesanti per la loro salute. E tutte queste “esperienze”, come altre, venivano insegnate ai volontari (veterinari, agronomi ecc.) in partenza per l’Africa. Paolo e Mara rimangono 5 anni in Piemonte, dove nasce il loro quarto figlio, Damiano.
Nel 1994 hanno modo di incontrare una coppia, con tre bimbi piccoli, da poco rientrata dall’Africa, che stava iniziando una vita comunitaria a Basiano, al “Castellazzo”, in una vecchia cascina quadrangolare, assieme alla famiglia di Bruno Volpi che si stava trasferendo lì riproponendo lo stile di vita già sperimentato a Villa Pizzone di Milano: ciascuna famiglia con una propria autonomia lavorativa e famigliare ma anche con una forte condivisione con le altre, fino alla cassa comune, e con una particolare attenzione all’accoglienza. Per Paolo e Mara era la continuazione naturale delle loro precedenti esperienze per cui decidono di trasferirsi, coi quattro figli, a Castellazzo dove rimarranno ben 27 anni.
“C’era una cascina diroccata, disabitata ed anche un po’ malfamata… La forza del gruppo ha permesso in pochi anni di ristrutturarla totalmente e svilupparla facendone un punto di riferimento per la zona e i suoi abitanti”. Inizialmente le famiglie erano tre ma sono diventate in un periodo neppure troppo lungo una decina. “E’ la progettualità comune che aiuta a proseguire, è l’essere insieme come ci ricorda anche il Vangelo: ‘Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro’. In altre parole da parte nostra ci deve essere questo vivere insieme e poi c’è la Provvidenza…”.
È un po’ come se lì si fossero tirate le fila di ciò che Paolo e Mara volevano, il fare sintesi fra la vita e il volontariato: “Inizialmente uno fa la propria vita, studia, lavora ecc. e poi fa anche attività di volontariato. In Africa abbiamo sperimentato che la vita e il volontariato sono strettamente connessi. E' la stessa esperienza vissuta a Castellazzo. L’essere aperti ed accoglienti verso gli altri, in particolare le persone con diversi problemi, era connaturale al nostro modo di essere. i problemi di cui si parlava noi li avevamo in casa: ragazzi o giovani con storie di abbandono, di violenza, di tossicodipendenza erano quelli che accoglievamo, che vivevano con noi e coi quali condividevamo un tratto di strada, con alcuni anche tratti abbastanza lunghi. sei papà e mamma dei tuoi figli ma sei padre e madre responsabili anche di altri. l’accoglienza rafforza anche la coppia”.
A proposito di ‘accoglienza’ Paolo sottolinea come l’esperienza gli ha insegnato che non sono solo loro ad accogliere gli altri, ma ci si accoglie reciprocamente: “Uno dei primi ragazzi accolti, con una situazione di vita di strada e di tossicodipendenza, ci è stato proposto dai servizi sociali per evitargli il carcere che sarebbe stato per lui deleterio. Di giorno lavorava, si fa per dire, con noi e alla sera lo accompagnavo in macchina dai carabinieri per la firma.
Ricordo che un giorno ero particolarmente incavolato per il suo comportamento e gli ho detto: ‘possibile che tu, nonostante ti teniamo in casa e ti stiamo aiutando, continui a fare lo scemo e combinare guai’? E lui anche con una certa baldanza, mi ha risposto: ‘ma cosa credi, anch’io accolgo te’. Mi ha spiazzato e mi ha fatto pensare: chi accoglie chi? Ci si accoglie reciprocamente, ciascuno per quanto è in grado di fare”.
Come sono arrivati a Pasturo?
Alla casa ‘Raggio di Sole’ sono stati per alcune giornate di ritiro e, parlando con le Suore, si sono raccontati le varie esperienze, suscitando anche una reciproca curiosità. Così la Madre Generale, suor Donatella, assieme a suor Alessandra, hanno voluto conoscere da vicino l’esperienza di Castellazzo rimanendone colpite positivamente. In seguito si è parlato di “Casa Pozzi” a Pasturo, ormai vuota da alcuni anni, e gradualmente si è fatta strada la proposta di iniziare anche qui una nuova esperienza comunitaria, come già fatto, da parte dell’Associazione Mondo di Comunità e Famiglie (MCF), in oltre 30 paesi.
“Siamo usciti dalla ‘confort zone’ di Castellazzo e in qualche modo stiamo sperimentando anche noi il sentirci un po’ accolti”. Attualmente abitano “Casa Pozzi” quattro famiglie: Paolo e Mara, Raffaele e Paola coi loro quattro figli, Giovanni e Maria con due figli, e suor Alessandra. I rapporti con la gente di Pasturo si stanno gradualmente costruendo. Certo la reciproca conoscenza è più facile per le famiglie che hanno figli che frequentano la scuola dove anche per i genitori ci sono maggiori occasioni di incontro. Il futuro è ancora tutto da costruire: “Siamo noi che dobbiamo adattarci al territorio dove viviamo e non viceversa, e cerchiamo di farlo con discrezione e col nostro stile di vita comunitario. Ci vuole tempo, conoscenza, relazioni. Importante, oltre a mantenere la nostra porta aperta, è anche uscire di casa e partecipare ai vari momenti di vita del paese. Per riassumere il percorso possiamo utilizzare uno slogan: vivi, rifletti, racconta”.
Grazie per questo “racconto”.
Guido
IL GRINZONE n. 84