Che cosa cerca, ancora, Antonia?  prima parte


“Cercavo i ciclamini fra i rovai”. Antonia Pozzi, come nei suoi versi di ‘Canto selvaggio’, anche nella vita, nonostante il dolore – anzi, proprio perché sa il dolore – cerca la bellezza. Guarda il mondo per quello che è, nel bene e nel male. C’è il “velenoso mondo” (‘Fuga’), ma pure che “l’anima mia di fiore / era fiorita / per tutti i prati / di tutti i paesi” (‘Colloquio’). E poi il suo essere assoluta non significa essere esclusiva. Lei accoglie: attraverso la poesia, con la fotografia, nel cuore. Comprende la complessità dell’esserci, consapevole della propria fragilità e insieme della propria ardente dignità. È inclusiva ed empatica.

Che cosa cerca, ancora, Antonia? Lo abbiamo chiesto a Onorina Dino e Graziella Bernabò, curatrici del volume “Parole. Tutte le poesie”, edito da Àncora. In questo numero partiamo con Suor Onorina.


Suor Onorina, chi era Antonia Pozzi e che cosa cercava? 

OD: Antonia Pozzi era una giovane in cerca di amore, con la A maiuscola, e desiderosa di dare amore. Da bambina amava, com’è naturale, i genitori e tutti i suoi parenti, in particolare la nonna “Nena”; amava le sue amichette, soprattutto quelle di Pasturo, che le consentivano grandi corse per i campi, dove parlava ai fiori e li accarezzava, dove poteva meglio immergersi in un’aria di libertà e di respiro, sotto il cielo azzurro e il sole acceso sui monti. Questo amore diventò presto amore per il sapere, l’arte, la cultura, la poesia, la musica, il bello, il bene e amore per la fotografia, perché le cose, le persone, la natura avevano per lei un loro sentimento nascosto che l’obiettivo doveva cercare di cogliere, per sottrarle alla realtà effimera del tempo e assicurare loro un’esistenza più vicina possibile all’eternità. Per Antonia Pozzi il bello era sia quello visibile sia quello irraggiungibile, immaginato e sognato attraverso gli affetti umani, la bellezza e l’altezza delle montagne, il sorriso innocente dei piccoli e quello umile della gente semplice, con la quale condivideva la profonda umanità; infine il bello della poesia e dell’arte.

 

Dopo “Poesia che mi guardi”, edito nel 2010 da Luca Sossella Editore, è stata pubblicata questa nuova raccolta, che contiene anche l’inedita ‘Gelosie’. Come mai è stata recuperata solo ora questa poesia? Ci racconti la storia di questo nuovo volume e, se ci fosse, anche di qualche episodio “inedito” durante la sua elaborazione.

OD: Questa edizione di Parole del 2015, poi ristampata nel 2016 e nel 2017, è nata dalla volontà della casa editrice e di noi curatrici di far risuonare ancora – e, per la prima volta, nella sua integralità – la voce poetica di Antonia Pozzi, tanto più che erano divenute ormai introvabili sia l’edizione del 2008 di Viennepierre Poesia mi confesso con te. Ultime poesie inedite sia l’edizione Sossella. La nuova edizione, come si conviene a ogni serio lavoro di curatela, ha costretto, per così dire, Graziella Bernabò e me a un esame ex novo degli autografi di Antonia, essendo noi consapevoli delle cancellazioni e dei tagli apportati ai manoscritti della poetessa dal padre di lei, Roberto Pozzi. Abbiamo voluto fare un lavoro estremamente accurato, che fosse il più possibile preciso, nel senso della rispondenza perfetta agli scritti di Antonia, eliminando ogni intervento censorio e ogni cambiamento stilistico e/o contenutistico. Questo lavoro – oltre che al necessario confronto tra gli autografi e le poesie trascritte in vari taccuini da Lucia Bozzi, la grande amica di Antonia e custode di molte sue carte durante la sua vita e, soprattutto, dopo la sua morte – ci ha spinte anche a cercare di restituire l’unica poesia rimasta ancora chiusa nei quaderni di Antonia per la grande difficoltà incontrata a ogni tentativo di lettura di questo testo, a causa delle pagine in parte tagliate e in parte incollate una sull’altra da Roberto Pozzi allo scopo di salvare i testi che intendeva conservare. Questo lavoro ha richiesto molto tempo e notevole pazienza e abilità, non solo per decifrare la parte di poesia che si intravedeva, ma anche per non rovinare, scollando le pagine, quel poco che di essa era rimasto.

La poesia, infatti, nei quaderni di Antonia non è completa a causa dei tagli di cui ho detto, ma abbiamo potuto integrare le parti mancanti proprio grazie ai taccuini di Lucia Bozzi. Con Gelosie abbiamo scoperto un importante tassello della personalità di Antonia, la quale non teme di svelare, proprio nel titolo, quell’ombra che aveva tentato di offuscare il rapporto d’amicizia tra lei e Lucia, perché il suo professore, aveva donato a quest’ultima – un’ex allieva da lui molto apprezzata – una fotografia del fratello Annunzio, morto in guerra nel 1918, e Lucia, pensando di farle cosa gradita, gliel’aveva mostrata. È molto interessante leggere, nella seconda parte del testo, come Antonia si sottoponga a un serio esame di coscienza, che la porta a riconoscere e a condannare il proprio errore, quando il suo sguardo e il suo cuore s’incontrano con l’infinito del cielo e con la luce delle stelle che in esso ardono: da Cervi lei ha avuto la cosa «più dolce»: un amore purissimo, perciò non ha alcuna importanza che egli abbia scelto come destinataria della foto Lucia. Inoltre scopriamo in questa poesia dell’adolescenza la nota fondamentale della pedagogia di Cervi professore, che, avendo certamente notato la grande sensibilità di Antonia e il suo affetto crescente per lui, anche se lei ancora non glielo aveva rivelato, e la passione con cui si era accostata alla figura del fratello morto in guerra, aveva preferito regalare una fotografia di Annunzio a Lucia, certamente più matura di Antonia e dalla sensibilità più equilibrata. Possiamo comprendere dunque quanto fosse forte l’ascendente educativo che egli esercitava su Antonia dai versi che chiudono la poesia: «Che io lo segua in purità egli vuole: // ed io lo seguirò, verso la vetta».

 

C’è scarto tra il donarsi poetico e il donarsi esistenziale di Antonia? Arte e vita dove si scontrano e dove si incontrano nel senso più vero?

OD: Antonia Pozzi intitola Bellezza una sua poesia del 1934, dedicata a Remo Cantoni; a partire da questa poesia forse possiamo capire anche qualcosa del rapporto tra arte e vita, tra il donarsi poetico e il donarsi esistenziale di Antonia Pozzi. E scopriamo che si tratta di un rapporto di incontro, e di incontro profondo: Antonia fa dono all’uomo che sogna di avere come compagno della propria vita non solo di se stessa ma anche di tutto ciò che ha riempito di bellezza fino a quel momento la sua vita: e sono paesaggi, montagne e mari, cielo e sole e stelle, albe e meriggi e tramonti, brezza e vento, ulivi e spighe, e colonne e statue, e cipressi e nidi…e il suo essere come uno stelo che di fronte alla bellezza trema ed è costretto a chinarsi, piegato dal vento. E che cosa è l’arte se non qualcosa che nasce dal cuore, dalla mente, dalle mani dell’uomo, animato e al tempo stesso reso estatico dal fascino della bellezza? Non è l’arte un’esigenza dello spirito? Del resto basterebbe leggere alcune lettere di Antonia a Tullio Gadenz, come quella dell’11 gennaio 1933, in cui scrive: « […] la poesia, non è vero, ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell'anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell'arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare» (A. Pozzi. Ti scrivo dal mio vecchio tavolo: lettere 1919-1938, a cura di Graziella Bernabò - O. Dino, Àncora, Milano 2014, p.155); o quella del 29 gennaio dello stesso anno, in cui scrive: «[…] non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per una adesione innata, irrevocabile, del più profondo essere, io credo, Tullio, alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del sangue. Io so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore» (Ibidem, p. 160). E, infine, basterebbe leggere la sua poesia Un destino, del 1935, in cui, dopo la negazione della sua poesia da parte del professor Antonio Banfi e del gruppo banfiano in genere, Antonia Pozzi sceglie di aderire alla poesia, e quindi all’arte, a prezzo della fatica di tutta la vita, sola e lontana dalla vita degli altri con i quali avrebbe voluto condividerla, perché «Lumi e capanne / ai bivi / chiamarono i compagni» e «In un suo fuoco assorto/ciascuno degli umani / ad un’unica vita si abbandona», mentre a lei non rimane se non «questa che il vento ti disvela / pallida strada nella notte», con la consapevolezza, però, che «[…] sul lento / tuo andar di fiume che non trova foce, / l’argenteo lume di infinite / vite – delle libere stelle / ora trema…». Arte e vita si scontrano in Antonia Pozzi là dove l’arte è guardata con occhi diversi da come la guarda lei: ed è appunto la concezione di arte che le gira attorno a metterla in crisi, e in crisi profonda, dal momento che la differenza viene a toccare le sue relazioni umane e affettive; ma, come ho già detto, Antonia supera questo scoglio con la forza che le viene dal di dentro e che la fa «vivere della poesia come le vene vivono del sangue».

 

Ci indichi tre poesie che ama molto di Antonia Pozzi e ci spieghi il perché.

OD: Non è facile scegliere tra le molte poesie di Antonia, perciò ne scelgo tre che amo, come ne amo tantissime altre: Preghiera, Ritorno serale, Sera a settembre.

Preghiera è del 1932, l’anno in cui Antonia Pozzi scrive il minor numero di poesie; in compenso tra esse si trovano quelle che più intensamente riflettono il dramma dell’assenza di Dio e, quindi, della sua ricerca, del suo bisogno di Lui. Antonia ha conosciuto Dio in un tempo lontano e poi non lo ha più incontrato veramente, ma solo di riflesso, nelle immagini della natura oppure nel volto dell’amato: «[…] era Dio che parlava in te, che voleva salvarmi attraverso di te. […] Tu sei stato la parola di Dio in me, la promessa della mia redenzione» (Lettera ad A. M. Cervi, 11-15 febbraio 1934, in A. Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo: lettere 1919-1938, cit., p. 188).Le vicissitudini della vita la tengono in uno stato d’ansia e di vuoto interiore che la rende incapace di scrivere poesia. Antonia, sente che le manca Dio. Antonia riconosce che il Signore è il Dio della vita, è la sorgente stessa della poesia: «il tuo canto segreto». E, mentre non sembra chiedergli cose straordinarie, è invece davvero eccezionale la sua domanda e presume una grande fede: chiedere «una stilla di te» significa credere che Dio è tutto e che lei è tanto povera cosa che una «stilla» sola della sua acqua divina ristoratrice le può bastare per rinascere, per tornare ad essere ancora la “portavoce” del suo «canto segreto», per tornare ad essere poeta.

Ritorno serale, una delle più belle poesie del 1933, prende il via da un ritorno a Pasturo, che conferma in Antonia la coscienza del suo rapporto con il paese di montagna, dove spesso si ritira per riposare e per studiare. La lirica si apre e si chiude con immagini e gesti d’amore: il «nido» e le «ginocchia materne», su cui «appoggiare la fronte»; il «silenzio», che abbraccia e avvolge «nel suo manto le cose» e dona la pace. Antonia, riferendosi a Pasturo, fa uscire dall’ombra la figura della madre, Lina, con due sole parole «ginocchia materne»: un’immagine che fa capire quanto riposo Antonia trovasse in lei, nel suo amore semplice, fatto più di sguardi che di parole; quanta fiducia riponesse in lei, la fiducia che l’ha accompagnata nella sua infanzia. Perciò Pasturo è doppiamente «nido»: luogo di quiete e di silenzio riposante in cui abbandonare le ansie e i pensieri angoscianti, dove la vita trova un riparo, il dolore una possibilità di scioglimento; dove il male non ha luogo; ed è anche la casa, la famiglia, soprattutto la madre.

In Sera a settembre, anch’essa del 1937, come in tante altre poesie, lo sguardo di Antonia è uno sguardo di intenzione, di partecipazione affettuosa, che sarebbe più corretto definire com-passione. In questa lirica la compassione è tutta rivolta verso gente forestiera, guardata male quasi sempre e ovunque dagli abitanti autoctoni: una famiglia di zingari, arrivati a Pasturo chissà da dove. Su di loro si china la tenerezza di Antonia. Ma, prima che si focalizzi su di essi, il suo sguardo si è allargato sul panorama della transumanza, nel quale si allineano e si intrecciano monti e valle, animali, carri e bambini che «s’aggrappano ai carri», per godere del loro dondolio, del loro odore di fieno, della compagnia dei grandi, con i quali sentirsi grandi anch’essi. E quanta energia e scioltezza e vivacità in quell’aggrapparsi: è una conquista, una vittoria. Accanto all’immagine gioiosa dei bambini, un’altra se ne apre, quella delle «rade, calde case illuminate», che mette in rilievo il contrasto fra due condizioni di vita: pochi possono godere del caldo tepore di una casa e della luce che neutralizza il buio della sera di settembre, dando non solo sicurezza e conforto, ma anche visibilità a chi vi abita – una sorta di affermazione sociale. Gli zingari invece vivono «accampati sulle strade», senza tepore, senza luce, senza visibilità sociale, se non quella della loro indigenza, che è, quasi come contrappeso, libertà: libertà nello spazio, libertà dalle convenzioni sociali, libertà di cantare ciò che sono con le loro nenie malinconiche. Qui la tenerezza di Antonia, la sua intima sofferenza si condensa nell’espressione «a me», che assume un valore fortemente affettivo, come a dire: per me, proprio per me «salgono» quelle nenie, a trafiggermi l’anima.

Grazie!

                                                                                                    Tiziana Altea


L’intervista integrale è reperibile sul sito www.antoniapozzi.it

 

 IL GRINZONE n.69