Evasione
Antonia ha trascorso una settimana (1-7 gennaio 1935) a San Martino di Castrozza, come testimoniano due cartoline del 2 e del 5 gennaio scritte alla mamma. La poesia nasce, quindi, dal ricordo di quelle giornate «vissute in ottima compagnia» (ha ritrovato il caro amico poeta Tullio Gadenz e c’è con lei Rosita Beati, amica di Lucia Bozzi ma anche sua) e nelle quali ha «fatto amicizia con mezzo mondo». A questo ragguaglio generico Antonia aggiunge però una nota tutta sua, che esce dalla sua anima: «Mentre ti scrivo le Pale sono rosse come il rogo della Walkiria. Un incanto».
È questo incanto che le è rimasto nel cuore ora che la sua vita ha ripreso a scorrere per le solite vie, sotto altro cielo, altro sole, altre nubi; di nuovo calata, forse, nelle solite angosce e in molti impegni, non ultimo quello di dovere stendere la laurea.
A partire da queste informazioni, si può meglio comprendere il senso del titolo della poesia. Che cosa è l’evasione di cui scrive la poetessa?
La poesia reca soltanto la data, non il luogo dove è stata scritta; ma dalle lettere sappiamo che l’11 gennaio Antonia è ormai rientrata a Milano.
L’evasione, allora, acquista una duplice valenza: di fuga dall’oppressione della vita di città, ma anche di fuga dal «mezzo mondo» conosciuto in montagna, all’albergo: certamente un mondo chiassoso (c’era anche un gruppo di studenti con le loro insegnanti) come può essere quello di chi si trova in vacanza e vuole divertirsi.
L’evasione, dunque, si configura come ricerca di spazi per lo spirito, di respiri profondi di libertà, di visioni che dilatino lo sguardo e gonfino di gioia il cuore.
Il desiderio di sganciarsi dalle banalità o dalle oppressioni quotidiane e di slanciarsi in questa ricerca è significativamente espresso dall’avverbio «Via», con cui inizia la seconda strofa, quando Antonia ha già compiuto il tratto iniziale dell’evasione «tra case oscure», forse le case dei montanari, e ha raggiunto il «braccio candido / del valico»; questo avverbio, che privato del suo verbo “andare” acquista un vigore straordinario, imprime un entusiasmo irrefrenabile alla sua decisione.
Tale è il desiderio-sogno di evasione che vediamo Antonia come sospesa tra cielo, monti e mare, laddove il mare non c’è: il valico diviene infatti un «molo» da cui salpare per un viaggio che si fa sempre più metaforico, sempre più interiore. Esso inizia lasciandosi alle spalle la strada che «porta tra case oscure», la terra immersa nell’ombra, gli uomini che cercano di rischiararla, ma a stento, perché i loro lumi sono così deboli che riescono a tracciare solo un alone appena percepibile sulla neve. È questo il luogo concreto dal quale Antonia si avvia per la sua evasione reale e ideale insieme: reale nell’immediato passato, ideale nel momento in cui scrive. I due verbi «salpo» e «lascio», che reggono tutta la prima strofa, danno a questo avvio un senso di taglio netto, di distacco profondo, necessario per conquistare quella libertà interiore senza la quale verrebbe meno la sua identità. Basta, a farci sentire la volontà più che mai determinata dell’autrice a compiere tale distacco, lasciare risuonare dentro di noi, che leggiamo le parole che Antonia sceglie per delineare il proprio mondo interiore, il proprio ritratto spirituale, nel momento in cui affronta il passo decisivo dell’evasione da una vita così com’è a una vita come lei la sogna, come vorrebbe che fosse per sé. Il ritratto è fissato in una concentrata e rapidissima sequenza di nomi, verbi e aggettivi («gioia dura raccolta», «creatura in sé conchiusa, unica», «diritta» ), che sottolineano la forte determinazione con cui Antonia difende la propria identità e il proprio sogno, e che sfociano, nel finale del testo poetico, nell’immagine del proprio volto proteso in alto e in avanti, come la «prora» della nave-valico, che si staglia libera, leggera e immateriale, sospinta da «vele di nubi» e guidata da «fari di stelle». Su questa nave si è imbarcata Antonia con tutta la sua fragilità di «creatura»; ma, ciò nonostante, può stare «diritta ai piedi / d’invisibili antenne» perché serra nel cuore la «gioia dura d’essere / creatura in sé conchiusa, / unica», in grado di affrontare e sopportare «il freddo cielo invernale» della vita e di guardare al futuro con un «volto d’attesa». Evasione, dunque, alla fine, da sé a un altro sé, più maturo, più vero.
Onorina Dino
IL GRINZONE n. 54