Intemperie
Passato, presente e, si potrebbe dire, futuro s’intrecciano in questa poesia, avvolti in un velo di mestizia, apparentemente creato dalla pioggia, che fa nascere ricordi e visioni.
Il passato è nel ricordo che apre il testo e che ritorna prima della chiusura: «il convento dell’infanzia»; il presente è al centro ed è esso, in realtà, che fa muovere tutta la lirica; il futuro è nel finale, anche se nessun verbo lo dichiara.
Incominciamo dunque dalla parte centrale, dall’immagine tragica che in essa si trova: «un compagno barcolla/ trasportando un morto». Il componimento è del maggio 1935, mese in cui Gianluigi Manzi, compagno di studi universitari di Antonia, si era suicidato. Da questo drammatico avvenimento, dunque, prende le mosse la poesia con tutta la tristezza che la pervade. Non troviamo qui riflessioni filosofiche, bensì la filosofia della vita: una morte cercata nel fiore degli anni, perché? E Antonia, quante volte, forse, aveva già pensato per sé una scelta analoga? Ma soltanto ora, ora che le palpebre del compagno non servono più a manifestare la vita, Antonia comprende la tragedia nella sua vera essenza. L’espressione «spente viole», che designa le palpebre del «morto», ne rende in pieno il senso; infatti, più che alle palpebre, esso si riferisce agli occhi; dagli occhi entra ed esce la vita, si mostra l’anima: gioia, dolore, amore, amicizia, ascolto; dagli occhi escono il sorriso, la malinconia, l’angoscia, il sentimento della vicinanza o della distanza affettiva; le viole, poi, sono fiori stupendi nel loro rigoglio, possono comunicare i segreti di un cuore, le sue attese, le sue risposte, ma, appassite – «spente» –, non dicono più nulla.
Da questa tragedia nasce in Antonia la nostalgia di un periodo breve ma preciso dell’infanzia, quello del «convento», forse a indicarla tutta, come tempo della serenità e della gioia. Il «convento dell’infanzia» è il tempo in cui Antonia, bimba di cinque anni, frequentava la cosiddetta “primina” dalle suore Marcelline, per inserirsi poi, compiuti i sei anni richiesti dalla legge, nella scuola statale. E, se quella scala era veramente bianca, qui il bianco è simbolo del candore di quel tempo felice in cui si ignora il significato di male e di bene, di gioia e di dolore: si vivono e basta, come si gioca e si impara a scrivere e a leggere; soprattutto si ignora che cosa voglia dire vivere, che cosa voglia dire morire. Per questo, allora, al tempo della «bianca scala» la terra ancora «non aveva fosse»; ora che essa è stata cancellata dalla conoscenza e dalla consapevolezza, è come precipitare nel vuoto – «manca il suolo» –. Antonia ricorda quel tempo di innocenza con una domanda che nasconde un’invocazione: «Dove sei / bianca scala?». È un ricordo luminoso che ella porta con sé, come fa pensare il termine «rinato»: questa rinascita, all’improvviso, in un giorno di “intemperie”, dice che quella immagine è rimasta radicata nel suo cuore di bimba come un paesaggio favoloso di sogni; ma il tono invocativo della domanda dice anche che la «scala bianca fra le robinie» non c’è più: essa è stata ingoiata dalla “prima fossa” di cui Antonia fa esperienza, un’esperienza cruda di fronte alla quale non può che provare angoscia, terrore; non può che sentirsi morire. Perciò la «bianca scala» di prima diventa, nella seconda parte della poesia, «scala bianca», quasi a sottolineare, marcando l’aggettivo, la disperazione per quel bianco che non c’è più, per quella visione di luce e di gioia tramutata in visione di dolore e di tenebre. Neanche le «vampe d’incenso» del rito funebre possono offrire qualche consolazione, qualche «riparo» alla pioggia, a quella «rete d’acque» che, pure, aveva fatto rinascere il «convento dell’infanzia»; esse dicono che tutto è finito e che non c’è rimedio alcuno alle “intemperie” della vita, di cui la morte è il culmine.
Così, una lirica che, al primo approccio, poteva sembrare solamente un testo di dolce nostalgia si rivela, alla fine, come una delle poesie più drammatiche di Antonia Pozzi.
Onorina Dino
IL GRINZONE n.37