Grillo

 

(Ohimé ch'io son tradita...)

 

Appaio e rompo

un canto di bambina

al ruscello.

 

Farfalle bianche

danzando

traversano il silenzio sull'acqua.

 

Ma dietro me rinasce

(... tradita nell'amor!):

 

grillo che si rintana

udendo passi

tra l'erba

 

e tosto al sole

risbuca, versa in trillo

il fugace

sgomento.

 

 

25 giugno 1935

 

Com’era lo stato d’animo di Antonia mentre scriveva questa poesia? Che cosa stava vivendo dentro di sé, fuori di sé? Leggendo la poesia sembra che il suo spirito sia attraversato da un soffio leggero di spensieratezza e serenità e che un sorriso divertito le illumini gli occhi, quegli occhi così acuti e penetranti, così aperti alla comprensione e alla compassione, alla condivisione delle gioie e delle pene degli altri, uomini e donne, bambini e vecchi, animali e cose: terra, acqua, erba, fiori. Per questo il suo apparire improvviso che fa spegnere «un canto di bambina» è da lei vissuto come una violenza, anche se fortuita; una violazione di una privatezza interiore prima che esteriore: è la bambina che, con la sorpresa, patisce il “rossore” per lo svelamento imprevisto della propria giocondità, quasi un furto della propria identità. Per definire questa sua “colpa” Antonia usa il verbo «rompo», nel quale si condensano contemporaneamente la rapidità con cui il canto cessa e la sensazione quasi fisica del frangersi irreparabile di qualcosa di prezioso che genera stupore e silenzio sgomento; ad acuire il dolore della perdita contribuisce la presenza del ruscello, che sembra portar via, scorrendo, ogni frammento, cancellando così non solo la violenza del “rompere” ma anche la memoria di un attimo di estrema libertà e autenticità. Resta soltanto il silenzio, reso più palpabile e intenso dalle «farfalle bianche», che «danzando» lo attraversano, ricordando con le loro volute leggere e la loro breve vita, la fugacità del tempo, e in questo caso di un tempo dello spirito: la gioia.

   La poesia si svolge nella cornice di un’altra poesia, due versi di un canto popolare di cui uno – «(Ohimé ch’io son tradita…)» –  fa  da proscenio e  l’altro – «(… tradita nell’amor!)» –  da sipario, con tutta la loro carica allusiva. Sono proprio questi due versi che vengono ”rotti” da Antonia con la sua apparizione improvvisa e l’interruzione posta dopo la parola «tradita», seguita dai puntini di sospensione, apre uno spazio al ricordo e riapre una ferita: forse Antonia sta meditando, nel silenzio della campagna, su una vicenda personale, il suo amore per Remo Cantoni, che si è rivelato, invece, e proprio in quel periodo, pura illusione e illusione soltanto sua; il canto della bambina glielo fa ricordare, le squarcia il velo sulla propria solitudine, le rinnova un senso di smarrimento, le acutizza l’angoscia. Il tentativo della volontà di dimenticare, di lasciarsi alle spalle un’esperienza che l’ha fatta “danzare” come le farfalle sul ruscello della vita, fallisce nell’urto con la forza del cuore: «ma dietro me rinasce/ (…tradita nell’amor!)». E se nella prima parte del testo è la bambina a tacere, intimidita dalla presenza estranea, ora i «passi/ tra l’erba», di Antonia, mettono in fuga un «grillo che si rintana».

Pare di dover leggere, in questa parte della poesia – che ha l’apparenza di uno scherzo o di una estiva e vivace scenetta agreste e che sospende per qualche momento il ritmo uguale e monotono dell’attraversamento dei campi – un'altra meditazione di Antonia sulla propria vita. Come la bambina, superato il momento della sorpresa e della timidezza, riprende il suo canto, non appena l’intrusa si è allontanata, e come il grillo esce dal suo nascondiglio e ritorna a godersi il sole, liberando la propria paura in un trillo, così Antonia, forse, sta tentando con tutte le sue forze di liberarsi da uno stato di angoscia profonda, di delusione mortale; vorrebbe, forse, essere lei la bambina, essere lei il grillo; ma lo sgomento del grillo – come il turbamento della bambina – sono fugaci, durano solo un istante e si sperdono subito nell’aria limpida e fresca, mentre il deserto interiore e lo sgomento di Antonia sono molto profondi, consustanziali alla natura del suo spirito; e allora quel canto «(Ohimé ch’io son tradita…)» non è più un canto ma un pianto che percorre le sue più intime fibre. Tradita, però, da chi? Non da Remo, non dagli altri, ma dal suo stesso cuore. Generosamente aperto all’accoglienza, all’amicizia, all’amore, esso deve continuamente “rintanarsi” e “tacere”, non perché gli altri siano cattivi o malevoli nei suoi confronti, ma perché diverso è il metro con cui Antonia misura questi sentimenti: o meglio, lei non ha misura.

 

                                               Onorina Dino