Antonia Pozzi e gli uomini di montagna



Guido Rey: il cantore del Cervino


«Ho letto e riletto il libro del Rey: gli ultimi capitoli sono meravigliosi. La precipitosa discesa notturna dalle vette al rifugio è indimenticabile: e così la descrizione degli abissi di Tiefenmatten. Un po’ in ritardo, mi ha preso la malattia del Cervino: e popolo di creste, di spigoli, di pareti la sonnolenza borghese di queste montagne. Sabato notte, con la luna che inondava tutta la valle, sono salita sulla Grigna, ed ero lassù prima dell’alba, sola sulla vetta, sotto il sorriso gelido delle ultime stelle. A poco a poco, rompendo con gli occhi intenti la nebbia, ho visto il nostro Cervino sorgere dalla notte e chiamare a sé i primi raggi del sole e indorarsene. Allora ho pensato che voglio camminare molto e imparare a non stancarmi e prepararmi con tutte le mie forze, per poter andare almeno fino alla Capanna e vedere di lassù un tramonto e un’alba».


 Il libro di Guido Rey cui Antonia accenna in questa lettera a Elvira Gandini, scritta a Pasturo l’8 agosto 1933, è Il tempo che torna. Pochi giorni prima Antonia aveva, proprio insieme a Elvira, partecipato al X° Attendamento Sociale del Cai Milano al Breil, sotto il Cervino. Era stata una settimana esaltante, in cui erano germogliate diverse bellissime liriche, perfezionate poi in agosto a Pasturo.

     Nella successiva estate, 1934, Antonia torna al Breil, questa volta ospite della famiglia Giussani. Giorni in cui effettua due ascensioni con Joseph Pellissier, la fidatissima guida dei Giussani, e in cui gode della compagnia dei fratelli Paolo e Piero Treves.
In quei giorni ha anche l’occasione, con le figlie di Camillo, di frequentare ripetutamente la casa di Guido Rey. Il “cantore del Cervino” ha allora 73 anni ed è già fisicamente molto provato. Ma è anche una delle personalità più rilevanti del mondo alpinistico.

     Nato a Torino nel 1861, era nipote di Quintino Sella, Ministro del nuovo Regno d’Italia e fondatore, nel 1863, del Club Alpino Italiano. Proprio il nonno fu il suo primo iniziatore alla montagna, che all’età di tredici anni gli fece conoscere il Cervino da un’altura delle Alpi biellesi.
Concluso il liceo, il padre commerciante volle mandarlo a Londra per far pratica nel mondo degli affari. Guido seguì le attività paterne per alcuni anni, poi abbandonò il commercio per dedicarsi ai viaggi, seguendo lo zio Quintino nelle sue escursioni.
In compagnia di Cesare Florio e Carlo Ratti, precursori in Italia dell’alpinismo senza guide, compì un numero rilevante di ascensioni nelle Cozie e nelle Graie, fra cui l’Aiguille Meridionale d’Arves, considerata a quei tempi fra le salite più ardue e che egli superò da capocordata (1898).
Perduto il fratello in un incidente di montagna mentre procedeva senza guida, Guido Rey cambiò il suo atteggiamento verso le scalate e non si avventurò più senza essere accompagnato da guide. Il suo incontro con Ugo De Amicis gli fece scoprire, a partire dal 1904, il massiccio del Bianco, che fino ad allora aveva considerato terreno dei “maestri” inglesi. Di questo periodo i suoi successi sui Grépon, Chamoz, Requin, Dru e Aiguille Verte.
Il suo è un palmarès di tutto rispetto: le prime della Ciamarella, della nord della Bessanese, la Punta Bianca sulla cresta est del Dent d’Hérens, la prima italiana della Meije... E, ancora, la prima italiana (e seconda assoluta) della cresta nord della Grivola e la parete sud del Lyskamm, per limitarsi alle imprese più importanti. Scalò cinque volte il Monviso, aprendo due vie nuove.
Ma la montagna che più di tutte lo fece innamorare fu il Cervino: lo salì cinque volte lungo varie vie, ma la sua ossessione era l’inviolata cresta del Furggen. Con i Maquignaz nel 1899 compì un’esplorazione, riuscendo a risalire buona parte del salto terminale, grazie a una lunga corda calata dall’alto, ma fu bloccato da una fascia strapiombante. In un secondo tempo Rey, dalla vetta scese con una scala di corda fino al punto più alto raggiunto.
Un procedimento non ortodosso, che lasciò perplesso il mondo alpinistico; ma per lui la salita di quella via alla “sua” montagna non era solo una questione di ambizione alpinistica.


            

Di scoperta in scoperta passò alle Dolomiti: il Catinaccio, le Torri di Vajolet, la parete sud della Marmolada (a lungo gli fu attribuita la prima, ma in realtà sua fu solo una celeberrima descrizione), la Tofana di Rozes, l’Antelao (1913). Ne ricavò il materiale per il suo libro Alpinismo Acrobatico (1914).
Era anche un fotografo molto apprezzato, del genere “pittorialista”. Ebbe diversi premi: alla prima Esposizione Nazionale di Torino del 1898 e alla seconda di Firenze, l’anno dopo, dove ottenne la medaglia d’oro. Nel 1902 fu presente all’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa e Moderna di Torino, ed in questa occasione ottenne rinomanza internazionale, con articoli sui giornali inglesi e statunitensi.
Nel 1915, allo scoppio della prima Guerra mondiale, volle dare il suo contributo. Non potendo arruolarsi nelle truppe combattenti per l’età (era ormai ultracinquantenne), si mise a disposizione della Croce Rossa, insieme alla propria automobile e al proprio autista. Durante un’azione, fu coinvolto nel ribaltamento dell’auto, e subì gravi danni all’aorta. Ciò lo costrinse a ritirarsi dall’alpinismo attivo.
Ma il suo ruolo nel mondo alpinistico, di cui fu una delle personalità di spicco agli inizi del Ventesimo secolo, fu dovuta non tanto alle imprese quanto al modo di sentire e interpretare la montagna attraverso i suoi scritti. Il suo capolavoro, Il monte Cervino, ha fatto epoca.
      «Un libro senza confronti, sia per la magnificenza dello stile che per la densità della sostanza. Esso è così meraviglioso dal principio alla fine che è impossibile ricavarne degli estratti» (in La montagna, a cura di Maurice Herzog, De Agostini, Novara 1962, pp. 424-425).


          

Rey ha una casa ai piedi del Cervino, al Breil, dove trascorre lunghi periodi e per cui passano innumerevoli amici, alpinisti e ospiti illustri. Proprio nel 1934 scrive a Samivel: «Venite a vedere questo luogo prima che la strada carrozzabile non ne rovini la solitudine e la poesia. Dopo non ci tornerò più». In effetti l’estate successiva la strada è conclusa, ma Rey nel corso di quell’anno si è ammalato gravemente; a causa delle cattive condizioni del cuore, non può essere operato. Dopo alcuni mesi di agonia, morirà nella sua casa di Torino il 24 giugno 1935.

Dunque, nell’agosto del 1934 Antonia è al Breil e ha la possibilità di conoscerlo. Già il giorno del suo arrivo, il 19 luglio, si reca in visita. E poi più volte nei giorni a seguire.
Come in molti aspetti dell’amore alla montagna, anche in questo caso Antonia è debitrice a Camillo Giussani. L’avvocato è infatti amico del celebre scrittore.
Mi pare probabile che si sia preparata all’incontro, non soltanto attraverso la lettura dei suoi libri, ma anche con i racconti di Camillo. Pare di sentirli, leggendo il ritratto che questi ne stenderà dopo la morte di Rey, e che apparirà nella seconda edizione di Chiacchiere di un alpinista. Un testo in cui l’amico ne presenta la sensibilità artistica, la passione per la fotografia (ed è probabile che Antonia abbia visitato qualcuna delle sue esposizioni), la qualità della sua scrittura e soprattutto il rapporto con la montagna; eccone un brano, non privo di retorica:

«La montagna non era per lui soltanto la parete da superare, la vetta da raggiungere; era il centro di una vita molteplice che intorno ad essa ferveva e in essa sublimava. Era la storia dei luoghi e delle popolazioni, che su’ suoi pianori, nelle sue valli, ai suoi valichi avevano vissuto e operato e combattuto; erano le costumanze, le aspirazioni, i travagli dei montanari raccolti in quei remoti villaggi, trascorrenti la loro esistenza in durezze di fatiche e in umiltà di vicende, nel breve orizzonte delle loro gioie mediocri e dei consueti dolori; era il ritmo perenne delle stagioni, nell’alternarsi dei candidi silenzi invernali con lo sbocciare improvviso delle fioriture primaverili, con la festosità delle lunghe giornate estive e il disfrenarsi impetuoso delle bufere […]. L’alpinista non poteva essere, per lui, estraneo a codesto mondo infinitamente vario e infinitamente bello» (p. 245).

Argomentazioni simili certo hanno toccato il cuore di Antonia, e si ritrovano in parecchie delle sue migliori fotografie, specie degli ultimi anni.
L’impressione dell’incontro è fortissima. Ecco come racconta alla madre (lettera del 24 luglio 1934) la visita del giorno prima:

«Il Breil ha però tante attrattive lo stesso: non ultima – anzi una delle più grandi – la presenza di Guido Rey, che ho conosciuto ieri nella sua meravigliosa casa valdostana e che è un tremulo, bellissimo vecchio, con due occhi color pervinca quali non ho mai, assolutamente mai visto al mondo. Si rimane incantati a guardarli, come si guarderebbe il cielo sopra una montagna, risuscitato dopo anni di tempesta. Non so: occhi che sono più di tutta una storia, di tutta una vita; che fanno pensare alle fiabe e alle poesie. Sono tanto contenta, perché la cara e simpaticissima Elena Bellotti (nipote di G.R.) mi ha detto oggi che io sono molto piaciuta allo zio, che si è tanto divertito a sentire le mie storie del campeggio e tanti altri discorsi: figurati! È un vero piacere poterlo distrarre e divertirsi un po’, perché è molto malato e nervoso: sono tanto contenta di esserci riuscita. E poi dice che io sono divertente, perché parlo con le mani e con le braccia: è vero?».

Quasi un mese dopo torna a parlarne all’amica Lucia Bozzi, in una lettera che scrive da Pasturo il 28 agosto:

«Quando poi parlai della mia gioia della solitudine, qualcuno si stupì: chi mi capì e mi approvava, senza parlare, solo col cenno dei suoi magici occhi azzurri, era Guido Rey. Che occhi, Lucia! Color pervinca, cielo dopo la tempesta, fiaba: si pensa ai secoli di luce sepolti oltre le vette, oltre le nubi. Si resta muti a guardarli, a berli, ci si perde in un prato di prodigiosa innocenza, in un fiume di silenzio. Oh, la sua voce dolce di vecchio, nella sua casa di pietra e di legno! Le sue mani pallide, scarne, sul tavolo scuro di abete – o levate nel saluto, come a benedire! Che bello, che bello, Lucia, avergli parlato, aver sentito che lui mi capiva, ch’era contento quando andavo a trovarlo! Che gioia vedere il suo fuoco, quella notte, su dal rifugio».

L’alpinismo non è mai stato, per Antonia, un semplice fatto sportivo. Piuttosto ha ricoperto un significato esistenziale profondo, una ricerca di essenzialità, purezza e forza; anche, e soprattutto, con sacrificio. Per lei, come per molti giovani della sua generazione, è stata fondamentale la lettura dei libri di Guido Rey, dai quali chiaramente traspare questo senso altamente spirituale della scalata.


                                                                                               Marco Della Torre


IL GRINZONE n.55