Antonia Pozzi e gli uomini di montagna
Oliviero Gasperi
Il rapporto con la montagna rappresenta per Antonia libertà, forza, dura scuola di vita e franchezza di relazioni. Antonia sarà sempre nemica dei comportamenti affettati e superficiali. Il rapporto con le guide è molto diverso. Uomini di montagna, abituati a relazioni franche e leali, amanti del silenzio. Essenzialità e spartanità certamente apprezzate da Antonia, che tiene con loro un atteggiamento non solo improntato alla stima e alla gratitudine, ma anche a una certa affettuosa consonanza interiore.
Primo in ordine di tempo fu Oliviero Gasperi, e con lui – anche attraverso i ricordi del figlio Otto – iniziamo questa rassegna.
Incontro Otto Gasperi al caffè “L’azzurro” di Madonna di Campiglio. Arriva puntualissimo, massiccio, con la tuta dei maestri di sci di Campiglio. Ci sediamo a un tavolo e non ci vuole molto a sintonizzarci sulla stessa frequenza. Otto racconta, un po’ insofferente per le mie domande metodiche; giustamente, perché la vita non si può imbrigliarla. La prima parte della conversazione verte sul nonno: «Remigio, mio nonno, è nato a Vigo Rendena nel 1873. Sua madre era una Bezzi, solandra di Pellizzano. È stato tra i primi a diventare guida alpina, giovanissimo. Figurati che era già guida a 19 anni».
Remigio si era rapidamente assicurato una vasta clientela, grazie anche all’amicizia con Fritz Österreicher, il “patron” di Campiglio: i clienti dell’albergatore erano i suoi clienti. Österreicher era proprietario del Grand Hotel des Alpes, dove nel 1895 fu ospitato l’Imperatore Francesco Giuseppe e la moglie Sissi. «Il nonno mi ha raccontato di aver più volte portato in montagna l’imperatore e sua moglie».
«Quando giunse la guerra, il nonno fu richiamato nell’esercito imperiale. So per certo che era un ufficiale dei Kaiserjagher; però non ricordo dove combatté; mi sembra comunque che non abbia avuto compiti di guida alpina militare…». Cosa strana, vista l’importanza che dallo scoppio del conflitto gli austroungarici attribuirono a questo personale qualificato.
«Al nonno non piaceva vantarsi; preferiva vivere tranquillo. E poi, più che agli elogi, teneva all’amicizia e alla stima dei suoi clienti. È sempre stato un uomo libero e li trattava su un piano di assoluta parità: era cortese, simpatico, sicuro; mai servile. E quando era in parete le sue decisioni non si discutevano. E così con parecchi clienti divenne veramente amico, di quelle amicizie che durano nel tempo». Otto ci tiene a ribadirlo e me lo ripeterà ancora nel corso della nostra chiacchierata. «E anche mio padre era così!».
«Dei [sei] figli, solo due lo seguirono in montagna: Onorio, che però si fermò alla qualifica di “portatore” e Oliviero, mio padre, che era il suo orgoglio. Era nato nell’anno 1900 e come il nonno divenne guida alpina giovanissimo: aveva appena 18 anni».
Per Remigio gli ultimi vent’anni di carriera furono i più belli, proprio per avere a fianco il figlio Oliviero; a lui aveva passato l’amore per la montagna e gli aveva insegnato tutti i trucchi del mestiere. Sempre assieme nella vita privata, lo erano anche in montagna. Si capivano al volo, identici nel modo di pensare e di agire.
Nel 1925 Oliviero si sposa. «La mamma si chiamava Genoveffa e da ragazza, durante la guerra, aveva fatto la portatrice per la costruzione dei rifugi dei soldati in alta montagna. L’anno dopo nacque Silvia. Poi nel 1929 mio fratello Aldo. Io sono il più piccolo, essendo nato nel 1937».
Sfogliando la meticolosa guida delle Dolomiti di Brenta compilata da Ettore Castiglioni, si contano dieci “prime” di Oliviero, per lo più di III grado. Così la “direttissima Gasperi” al Croz del Rifugio (1927), la Punta Occidentale di Campiglio per la parete NO (1930), la Cima del Grostè per la parete S (1934)…
Se il terreno di competizione era lo stesso del padre, in particolare lo fu il Castelletto Inferiore, dove Oliviero aprì lo “spigolo Gasperi” sulla parete sud. Era il 27 agosto 1935. Pochi giorni dopo ripeté la via con Nino Arietti in notturna, apportando due varianti che riteneva necessarie a perfezionare la verticalità della via. Due anni più tardi Oliviero compì anche la prima invernale al Castelletto, con il famoso campione di sci Michele Feuersinger.
Proprio su questa “sua” montagna Oliviero porta Antonia Pozzi al loro primo incontro, nell’agosto 1929. Oliviero, con i suoi 29 anni è ormai una guida affermata, dall’ottima tecnica e anche dall’ottimo carattere (da tutti i commenti dei clienti sul suo libretto di guida si desume un rapporto franco, incoraggiante, divertente). Antonia diciassettenne segna sul libretto di guida: «Riconoscentissima a Oliviero Gasperi che mi ha fatto compiere sul Castelletto Inf. la mia prima ascensione. Antonia Pozzi. 16 agosto 1929». E così descrive a sua nonna, per lettera, l’avvenimento: «[…] ho fatto la mia prima ascensione di roccia; devo aver mandato alla zia Luisa una cartolina col percorso tracciato in penna. Spero che non ti sarai spaventata: soli con una buona guida si può andare dovunque. E, credi, la montagna è una palestra insuperabile per l’anima e per il corpo. Nel salire, non si è che carne pieghevole e istinto felino aggrappati alla rupe pungente: a palmo a palmo, con l’arcuata tensione delle dita, con la piatta aderenza delle membra, si guadagna la roccia. E poi, in vetta, quando ti vedi intorno un anfiteatro di guglie e di ghiaccio, o, da una cengia esilissima, guardi sotto lo strapiombo, affogata nella fluidità vertiginosa, la falda verde da cui balza il getto estatico di massi che hai conquistato, allora un’ebbrezza folle t’invade e l’adorazione selvaggia della tua fragilezza ardente che vince la materia. Eppure, là in alto, anche la materia, la colossale materia che ci attornia, non sembra inerte e ostile, ma viva ed amica: e le guglie pallide non sembrano monti, ma anime di monti, irrigidite in volontà d’ascesa. Ti mando due mie fotografie: una fatta al Tuckett dopo l’ascensione al Castelletto. Ti prego di non giudicare ingombrante la presenza del mio compagno: è una delle più brave guide del Trentino. Nel lungo e faticoso tête-à-tête della scalata mi ha dimostrato un’abilità e una sicurezza perfetta ed un’anima squisitamente gentile. Con lui, per l’anno venturo, mi riprometto molte sagge “mirabilia”». Riecheggiano in queste righe i motivi di cui sarà intessuta la poesia Dolomiti, la prima che trae spunto dalla montagna.
E a lui si riferisce, senza nominarlo, nella poesia Vertigine, scritta il 22 agosto 1929, poco dopo il ritorno dal soggiorno a Madonna di Campiglio.
Nell’ultimo giorno di quel suo primo periodo di vacanza a Madonna di Campiglio, Antonia Pozzi scrive un’ulteriore lirica, che intitola, appunto, Addio. La “bimba” è Silvia, la primogenita di Oliviero, che all’epoca aveva tre anni.
Oggi - intristito cielo, ultimo giorno -
un ansioso spiare, mascherato
di calma girellona, intorno all’umile
baracca delle guide; e un batticuore
improvviso, violento, all’apparire
d’una testina fulva. Il primo approccio
esitante: e d’un subito le mani
mie, lunghe e lievi, sul visino acceso;
le mie mani graffiate e illividite
dalle rupi su cui, la prima volta,
il padre della bimba mi ha guidato.
Poi, la rapida fuga in mezzo ai pini,
a passi lunghi, con la gola chiusa.
Sotto un leggero crepitio di pioggia,
dietro l’abside grigia della chiesa,
mesta offerta di colchici violetti
ad un erboso tumulo d’ignoto.
Oliviero le farà ancora da guida nell’agosto 1932. Sul libretto di guida Antonia scrive: «Inesperta di roccia e senza allenamento, devo alla sicurezza meravigliosa ed alla gaia e fidata compagnia di Oliviero Gasperi la gioia di aver compiuto in pochi giorni le seguenti ascensioni: Cima Grostè – Campaniletto dei Camosci – Cima Brenta – Croz del Rifugio (per la Direttissima Gasperi) – Parete della Cima Campiglio (per il camino Gasperi). 13 – 18 agosto 1932. Antonia Pozzi».
Oliviero le sarà anche maestro di sci, nelle vacanze natalizie 1933-1934, come si ricava dalle lettere ai genitori di quei giorni. «Nel pomeriggio il Gasperi ci ha fatto fare esercizi di cristiania e di slalom: domani andiamo con lui allo Spinale e ci staremo tutto il giorno a fare altri esercizi. È molto bravo e paziente e ha delle pretese molto modeste».
Otto non conosce questa vicenda e neppure le poesie dedicate a suo padre e a Silvia. Comunque conferma: «Certo, mio padre era anche maestro di sci. Che naturalmente era scialpinismo: il primo impianto di risalita a Madonna di Campiglio risale al 1947! È su questa strada che mio padre mi ha indirizzato». E conferma anche la pazienza e la bonarietà di suo padre. Non può trattenersi dal raccontarmi un aneddoto gustoso del rapporto tra Oliviero e il padre Remigio: «Erano molto simili e si capivano al volo, entrambi burloni, si prendevano in giro e si facevano reciprocamente scherzi. Il migliore riuscì a mio padre: il nonno era molto goloso, specie di caramelle. Si trovavano in un rifugio e per il giorno seguente era in programma un’ascensione con due clienti. Papà aveva preparato dei confetti potentemente purgativi e li aveva distrattamente poggiati sul tavolo. “Cosa sono?”, chiese il nonno e se ne appropriò. Il giorno seguente fu forse la più tormentosa scalata del nonno: ad ogni tiro di corda, appena raggiunta una cengia, era costretto ad abbandonare il cliente e a traversare fino al primo spuntone di roccia che gli desse un po’ di privacy. Papà moriva dal ridere. Quando il nonno capì, fulminò con lo sguardo il figlio, ma poi scoppiò anche lui a ridere, non senza minacciarlo di tremende ritorsioni, che peraltro trovò il modo di fare».
Il 1940 fu un anno triste: Remigio smise di andar per crode (aveva ormai 67 anni) e Oliviero fu richiamato in guerra. «Era, naturalmente, alpino e fu inviato sul fronte occidentale, con funzioni di guida alpina militare. Combatté in Val d’Aosta fino all’8 settembre. Poi, nel 1945 gli capitò un incidente assurdo: entrando in un locale, a Campiglio, non vide un vetro che, rompendosi, gli tranciò i legamenti di una mano. I medici militari tedeschi di passaggio a Campiglio gliela riattaccarono alla meglio, ma ne perse la funzione. Dovette smettere di fare la guida e fu un trauma. Trascorse gli ultimi vent’anni facendo il factotum alla Pensione Floriana. In paese tutti gli volevano bene; i vecchi continuavano a chiamarlo con il nome del padre, Remigio.
Era uomo di grande fede, come il nonno. Ricordo che quest’ultimo negli ultimi anni faceva un po’ anche il campanaro e il sagrestano. Quando passava a raccogliere le elemosine, diceva scherzosamente a qualcuno più facoltoso: “Metti di più, se no come facciamo il parroco e io ad andare a prendere un goccio all’osteria…!”.
Soffriva molto per la progressiva malattia di suo padre Remigio: morì nella settimana santa del 1951, ma era già un anno che lo trattavano a morfina. Tra l’altro, quell’inverno rimanemmo bloccati per due mesi a Madonna di Campiglio: erano caduti ventidue metri di neve!
Per papà un momento felice fu quando la SAT decise di insignirlo del riconoscimento di “guida emerita”, come già era successo a suo padre. La cerimonia avvenne nel 1956 e fu la guida alpina più anziana, Antonio Dallagiacoma, ad appuntargli sul petto la medaglia.
Morì per un infarto nel 1965. Avevamo un orto vicino al fiume. Passò da casa e mi disse che andava a prendere un coniglio per il pranzo. Io gli dissi: “ammazzane due, che invitiamo anche il Ravagni – un nostro amico”. Tornò con i due conigli in mano e… cadde fulminato sulla porta di casa».
Non posso trattenermi dal chiedere a Otto il suo rapporto con la montagna. «Erano tempi difficili, di povertà. Qui a Campiglio la situazione della gente è migliorata solo negli anni Sessanta. Il papà mi sconsigliò di fare la guida alpina: ormai si guadagnava troppo poco. Piuttosto mi suggerì di fare il maestro di sci. E così ho fatto. Naturalmente la roccia l’ho sempre amata: da solo o con gli amici ho fatto tutte le cime del Brenta. Fino al 1957 ho fatto agonismo di sci, nei Campionati di terza e poi di seconda categoria. Allora non c’era la specializzazione di oggi e si facevano tutte e tre le specialità. Stavo per passare alla prima categoria quando ebbi un incidente piuttosto grave e la mia carriera finì lì».
Siamo al termine della nostra chiacchierata. Mi faccio raccontare da Otto del suo servizio militare al Nucleo Sci Agonistico dell’Esercito, dei suoi lunghi anni all’“Università dello sci” di Pirovano, dell’eliski con i grandi industriali bresciani, dei clienti famosi, il più duraturo dei quali fu l’attore Anthony Quinn… Ma questo sarebbe un altro racconto.
Marco Dalla Torre
IL GRINZONE n. 49