AGOSTO 1953  -  AGOSTO 2011: cinquant'otto anni a Pasturo


 

La suora più “longeva” nella stessa Parrocchia, ben cinquantotto anni… Ma qual è il segreto? “Un bel tacer non fu mai scritto”, mi dice suor Diamantina, ricordando gli insegnamenti della sua mamma. In questi anni ha collaborato con molte consorelle e ben otto Suore Superiore ma non si è mai lamentata, ha sempre cercato di fare, umilmente ma tenacemente, il proprio dovere, per cui la Madre Generale, o meglio le Madri Generali che si sono succedute alla guida della Congregazione del Preziosissimo Sangue non le hanno mai chiesto di cambiare sede…

E’ un giorno di sole quando la incontro ma anche un giorno di tristezza: infatti suor Diamantina ha da poco comunicato che lascerà Pasturo per Villanova di Barzanò, dove le suore “Preziosine” hanno una Casa per suore anziane. Non riesce a trattenere qualche lacrima: “Avrei proprio voluto essere sepolta a Pasturo, nella tomba accanto a don Tullio”, il parroco con cui ha condiviso buona parte della sua missione nella Parrocchia di S. Eusebio. E tuttavia, con molta serenità e realismo, accetta anche questa prospettiva che permette fra l’altro una maggiore vicinanza col fratello Martino, che abita a Veduggio.

Proprio a Veduggio è nata Suor Diamantina, il 26 ottobre 1921, da una famiglia “brava, gente di fede”. E’ stata la prima di sette figli, due femmine e cinque maschi. C’erano altre due famiglie nella stessa casa, due zii sposati con figli: in tutto quindici bambini.

Fin da piccola frequentava le suore che gestivano l’asilo e l’oratorio vicino a casa. “Suor Giacinta mi chiamava per qualsiasi incombenza ed io ero felice di poterla aiutare. Mi chiamava la ‘servetta’ delle suore …”. E’ così che si è fatta strada la vocazione, ma come comunicarlo alla famiglia, soprattutto alla mamma che aveva bisogno del suo aiuto con i numerosi fratelli? Una sera la zia l’aveva quasi obbligata ad andare a casa sua a dormire e al mattino presto l’ha svegliata per dirle che era nato un fratellino, Martino, il settimo ed ultimogenito, e lei allora è scoppiata a piangere perché pensava che i suoi genitori, a quel punto, non l’avrebbero più lasciata andare in convento… Invece l’anno successivo (nel 1942) sia la mamma che il papà le hanno dato il consenso, rendendola felice.

Ha avuto la prima esperienza come suora a Modena, per gestire un asilo all’interno di una fabbrica con molti operai e operaie. Lì rimase due anni prima di essere trasferita a Roncello (in provincia di Milano, ora Monza-Brianza) dove le suore avevano sia l’asilo che l’oratorio femminile: fra le bambine avute all’asilo durante gli otto anni di permanenza una è molto conosciuta a Pasturo: l’attuale superiora suor Teresina !

Nel 1953 suor Diamantina arriva a Pasturo, incontra le altre suore, la superiora suor Clemenza Brivio, il parroco don Cima, il coadiutore don Tullio e, in autunno, inizia l’asilo con molti bambini … compreso il sottoscritto che non ha dimenticato quella suora piccola ma energica, cui non si poteva disobbedire, pena anche qualche scappellotto… “I genitori mi chiedevano come andavano i figli, se si comportavano bene e, se facevo loro qualche osservazione, mi ringraziavano e condividevano. Adesso invece tendono a giustificare tutto e a non prendersi alcuna responsabilità”.

In quegli anni, alla scuola elementare, fra le discipline c’era anche “lavoro domestico”: la maestra Bambina chiese a suor Diamantina di collaborare e così, una classe ogni giorno si recava all’asilo e la suora insegnava a fare piccoli lavoretti: “Le mamme erano molto contente perché vedevano che le figlie imparavano ed alla fine di ogni anno c’era l’esposizione di quanto realizzato”. Quell’esperienza fu riproposta anche alla sera per le ragazze più grandi, per imparare a cucire, ad attaccare i bottoni, a ricamare... “Ci sono adesso alcune mamme che si ricordano e mi dicono che occorrerebbe insegnarlo anche alle loro figlie che non sanno neppure attaccare un semplice bottone. C’è anche qualche uomo, che ho avuto all’asilo, e che mi dice che dovrebbe mandare ad imparare la propria moglie perché non sa cucire e rammendare e, non appena una calza è un po’ rotta, la butta via e ne compra di nuove, ma costano …”.

E’ inevitabile a questo punto parlare dei tanti (“non ho fatto il conto ma sono proprio tanti”) bambini che ha conosciuto all’asilo, di quelli che ora sono nonni, papà e mamme e degli attuali figli: “I bambini sono sempre bambini, col loro entusiasmo e anche con le loro marachelle; i genitori invece sono proprio cambiati. Non accettano che si facciano osservazioni, se la prendono e aggiungono che non è solo il proprio figlio a comportarsi in un certo modo, ma anche gli altri… A volte alcuni mi chiedono di pregare per loro, soprattutto per qualche giovane o per qualche ragazza, ma hanno quasi paura a prendere posizione di fronte a dei comportamenti sbagliati. Certo appare molto più difficile il ruolo educativo …”.

Mi parla del Valter Arrigoni, di come a volte le chiedeva di stare a casa sua per aiutare la mamma malata, “mentre lui faceva dei giretti con i suoi amici. Ancora adesso, quando mi viene a trovare, dice che ricorda suor Diamantina perché gli ha insegnato a pregare”.

Nel raccontare si ricorda dell’Anacleta, “un aiuto prezioso per l’asilo per molti anni”; è stato don Cima a proporla come inserviente quando avendo perso i genitori non aveva nessuno. Ha aiutato l’asilo anche come cuoca per molti anni, fin quando si è ammalata ed è morta poco tempo dopo.

Di don Riccardo Cima, parroco per i primi tre anni di presenza di Suor Diamantina a Pasturo, ricorda il forte attaccamento all’asilo e l’episodio che ha portato le Suore a Pasturo. Era infatti andato a Monza, nel 1938, perché gli avevano detto che una Congregazione Religiosa, che lì aveva la Casa Madre, era disponibile ad inviare delle suore a supporto della parrocchia. Non conoscendo bene Monza ha sbagliato indirizzo ed è capitato presso un altro Istituto, quello appunto delle Preziosine, la cui Superiora l’ha accolto e, sentita l’esigenza ed il bisogno, ha accettato di inviare a Pasturo le proprie suore; ma non erano quelle alle quali don Cima intendeva rivolgersi e per questo diceva che era stato il Signore a fargli sbagliare Congregazione. Era comunque più che soddisfatto di quel disguido ed ha sempre avuto una buona collaborazione dalle suore. Si recava quasi tutti i giorni all’asilo con qualche caramella e i bambini, che lo aspettavano, gli prendevano la mano da cui don Cima faceva comparire un dito anziché l’agognata caramella, che comunque alla fine veniva trovata, per la gioia dei bambini.

Certamente però il Parroco con cui suor Diamantina ha maggiormente collaborato, sia per l’asilo e l’oratorio che per la Parrocchia, è stato don Tullio. “Ci voleva proprio bene, era spesso presente in asilo che ha sempre seguito con attenzione”.

Appena arrivata a Pasturo suor Diamantina aveva trovato tutta la parte esterna dell’asilo molto in disordine; ricorda che suo padre, che era venuto a trovarla ed aveva visto il giardino in quello stato, aveva deciso di rimetterlo a posto e così ha fatto, fermandosi a dormire alcuni giorni su una brandina dove c’era il palco del teatro. Ricorda che un aiuto significativo era stato dato anche dalla “Maria del prèt”.

In quei primi anni, nel Consiglio di Amministrazione dell’Asilo, c’era anche l’avvocato Pozzi (il papà della poetessa), che a volte nelle riunioni, col suo carattere forte ed anche autoritario, alzava prepotentemente la voce ed intimoriva le suore che, spaventate, si ritiravano sopra, in solaio, a pregare … oppure si recavano alla cappellina dove adesso sorgono le scuole. Negli ultimi anni però l’Avvocato Pozzi era cambiato: si recava anche in Chiesa e diceva alle suore di pregare, ai bambini avrebbe badato lui. E, in effetti, con la sua presenza i bambini rimanevano attenti!

Dopo la morte dell’avvocato, la mamma di Antonia, la contessa Cavagna Sangiuliani, era rimasta sola; su suggerimento anche di don Tullio, le suore andavano spesso a trovarla. ”Ha sofferto molto per la morte della figlia, ma anche per il carattere del marito. Non ha mai accusato nessuno, ma si capiva il suo profondo dolore per non aver saputo comprendere ed aiutare Antonia; forse si sentiva anche un po’ in colpa per la sua morte”.

Proseguendo nel colloquio, suor Diamantina ricorda don Gaudenzio, che è sempre stato molto vicino alle Suore e che, quando ha occasione, passa ancora a trovarle; don Leone, che pure era “vicino e attento all’asilo anche se negli ultimi tempi ci sono stati dei problemi, forse anche problemi di salute”.

Adesso è arrivato don Antonio, “parla poco ma viene da noi quasi tutti i giorni e sta anche cambiando diverse cose … Io, comunque, faccio ancora in Parrocchia quanto necessario”.

Ma che idea si è fatta suor Diamantina di Pasturo ? “Mi hanno sempre voluto bene tutti, mi spiace troppo andare via… D’altra parte i problemi di salute non mi permettono di continuare ad occuparmi delle diverse cose che si devono fare ed io non riesco a star ferma. Per questo, quando la Madre Generale mi ha chiesto, ho deciso”.

E riprendendo il discorso sul paese parla dei giovani, dice che occorre avere un po’ di fede, ma soprattutto che dovrebbero avere l’esempio degli adulti: “Ho detto ad alcuni ragazzini che occorre andare a Messa, ma mi hanno risposto che non vanno neppure i loro papà e le loro mamme… Anche i bambini non frequentano più né la Messa degli scolari né quella della domenica. Posso solo pregare, ma i genitori dovrebbero seriamente preoccuparsi”.

Certo anche la presenza delle suore nel paese è cambiata. Chi aveva bisogno, spesso si rivolgeva alle suore mentre adesso le richieste sono diminuite. “Ci sono ancora alcune famiglie che chiedono un aiuto, a volte per i vestiti, a volte anche per il cibo, in particolare gli stranieri”. 

L’asilo rinnovato: “Tutti dicono che è veramente bello, anche quelli che non sono di Pasturo ma hanno occasione di vederlo. Adesso però abbiamo bisogno di aiuto per chiudere anche i conti. Una volta forse c’era più generosità verso l’asilo”.

Grazie, suor Diamantina, un grazie lungo cinquantotto anni.

                                                         

                                                                                                              Guido


IL GRINZONE n.36



 

 

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IL CARDINAL MARTINI A PASTURO


Il cardinal Carlo Maria Martini, recentemente scomparso, è venuto in diverse occasioni a Lecco, in Valsassina e a Pasturo. Come “GRINZONE” lo vogliamo ricordare attraverso alcune fotografie e con le parole di don Angelo Casati, che è stato Parroco a S.Giovanni di Lecco.

 

 


Martini non era uomo di carriera. Gli interessava Gesù e il suo vangelo, fuori dalle astuzie e dalle macchinazioni. Erano in tanti a parlargli dei loro sogni di una chiesa più libera, più accogliente, più affidata al vangelo. Condivideva i sogni. Percepiva che molti in lui riconoscevano il sogno. Invitava a resistere.

Tra i suoi sogni sulla chiesa colgo questo: una chiesa che parla dopo aver ascoltato e solo dopo aver ascoltato. Raccontava di Gesù che nei vangeli prima apre le orecchie del sordomuto, poi le labbra, come a dire che, se prima non si ascolta, ci escono parole vuote.

( …) Il ricordo che serberò nel cuore è quello del Pastore di Palestina che cammina davanti al gregge. Indica un orizzonte, ma nello stesso tempo non accelera oltre misura il passo. Ha compassione della pecora ferita e di quella gravida.

Il pensiero mi corre a un gesto, quello che fu dell’inizio, quel suo ingresso così inusuale. Camminava confuso tra la gente: non era processione, non era corteo, era cammino. Ci sembrò di capire: uomo del cammino e non del palco, uomo della strada e non delle parate.

(testo tratto da un’intervista di Zita Dazzi di “Repubblica”)



IL GRINZONE n.40




 



 

PASTURO E GLI STRACCHINI D'AMERICA

 La Valsassina protagonista di un vecchio libro utilizzato nelle Università USA


Sul giornale “La Provincia di Lecco” di domenica 21 marzo è apparso un articolo, di Gian Luca Baio, che ci è sembrato opportuno proporre anche ai lettori de “Il Grinzone”. Ringraziamo l’autore e “La Provincia” per avercelo permesso.


Quando Paolo Cherchi, professore di letterature romanze dal 1965 al 2003 presso l’Università di Chicago, prese possesso del suo nuovo ufficio accademico, vi trovò inaspettatamente alcuni vecchi libri in italiano, malconci e polverosi, lì dimenticati o forse volontariamente abbandonati dal suo predecessore. Tra questi, uno era un cosiddetto “reader”, cioè un testo letterario commentato a margine che fungeva da manuale di lettura e di apprendimento per studenti della lingua italiana, con tanto di “vocabulary” in appendice, “notes on pronunciation” e segnature diacritiche per rendere meno ostica la nostra bella e difficile lingua agli studenti anglofoni: il testo, pubblicato nel 1931 proprio a Chicago, si intitolava “Fra le corde di un contrabasso” ed era stato scritto da Salvatore Farina – romanziere sardo, “naturalizzato” milanese – assai in voga in Italia nell’ultimo trentennio del secolo XIX, che per alcune consonanze stilistiche e di contenuto venne a più riprese definito, soprattutto all’estero, “il Dickens italiano”.

 

Fin qui nulla di strano, se non fosse per il fatto che la vicenda romanzesca narrata nel volume che quegli studenti americani utilizzavano per apprendere la nostra lingua, era totalmente ambientata a Pasturo in Valsassina, e mentre i giovani discenti d’oltreoceano si impratichivano a fatica con l’idioma di Dante, si avvezzavano altresì a conoscere suoni, nomi e parole a loro non certo familiari come “Introbio”, “Grigna”, “Castello” (in nota definito “a little village just north of Lecco”) e naturalmente – parlando di Valsassina non poteva certo mancare – “stracchino” (più volte citato nel testo e definito nel glossario “a smooth, soft cheese, made in mountainous parts of Lombardy”). E l’edizione di quel testo, originariamente letterario ma trasformato in strumento didattico di apprendimento linguistico, non fu l’unica pubblicata negli Stati Uniti: una era già stata editata dieci anni prima sempre a Chicago e un’altra nel 1897 in coedizione tra New York e Boston.



Negli otto capitoli di “Fra le corde di un contrabasso” – pubblicato invece in Italia nel 1882, in appendice sulle pagine della “Rassegna Nazionale” e quindi in volume – la narrazione è guidata in prima persona dal medico condotto di Pasturo (non troppo celato portavoce del pensiero dello scrittore stesso) e ha inizio con una convinta descrizione ambientale che dimostra l’affetto appassionato che Salvatore Farina nutriva verso il territorio lecchese che ben conosceva avendovi più volte soggiornato (soprattutto a Maggianico): “In quelle vallate non ci si ammala quasi; gli uomini lavorano nelle cascine, le donne nei prati, i fanciulli si arrampicano su per i monti, accompagnando le vacche; fanno tutti una vita tranquilla, sono contenti del loro stato e lo migliorano un po’ alla volta, senza affannarsi; bevono il latte caldo delle loro bestie e l’acqua fresca, che si annunzia da lontano col rumore delle cascatelle e dei rigagnoli; poco vino e punto liquori. Così vengono su forti, campano lungamente, e non danno molto da fare al medico-condotto. Perciò io mi trovavo bene in Pasturo, e non posso ricordare quel tempo senza che mi si apra agli occhi il quieto orizzonte della Valsassina”; una rappresentazione di popolo certo idilliaca e rassicurante ma non del tutto ingenua e forse non casualmente insistita quale possibile controcanto “ideologico” alle plebi vinte e rassegnate o divorate dal bramoso desiderio della “roba” che solo un anno prima – nel 1881 – Giovanni Verga aveva descritte nel suo capolavoro verista “I Malavoglia” ambientato nel Mezzogiorno d’Italia. La vicenda del racconto è intrecciata attorno alla figura di Orazio Brighi, nato e cresciuto fra le montagne della Valsassina, poi mandato a Lecco “per farvi gli studi del ginnasio e del liceo” e quindi ritornato in Valle “con molti capelli spettinati, con molte cognizioni spettinate e con un contrabasso”. Il protagonista, romanticamente e un po’ goffamente posseduto dalla passione per la musica e alla spasmodica ricerca della somma armonia sonora contenuta all’interno della natura, per tutto il racconto si aggirerà febbrilmente col suo ingombrante (non a caso) strumento nei boschi e lungo i sentieri del Resegone, della Grigna e della Grignetta – “Su, su in alto, fino a non udire i rumori della terra; forse allora mi riuscirebbe di afferrare una nota, almeno una, dell’armonia dell’universo” – ma finirà per comprendere come la felicità fosse invece inscritta nella semplice serenità familiare di una scelta d’amore condiviso con la giovane che da lungo tempo gli era profondamente legata e che, trepidante, attendeva l’occasione per coronare il suo sogno matrimoniale.

Nelle pagine del libro sono presenti i cardini della narrativa di Salvatore Farina che per incontrare il gusto del pubblico di massa fondeva – a volte con consumato mestiere – le esigenze di una trama ad intreccio di ascendenza feuilletonistica con un’istintiva propensione allo scavo psicologico e all’analisi introspettiva, mescolando frasi e pensieri con la sottile ironia del suo umorismo bonario, ammiccante e mai censorio, arginato soltanto dalla profonda fede nella famiglia e nell’istituto matrimoniale.

Del resto, con questa semplice ricetta, Farina riuscì a diventare uno degli scrittori italiani più apprezzati e tradotti dell’epoca e certe pagine del libro ce ne fanno ben capire la ragione; come quella ironicamente culminante con questa profetica chiusa sentenziosa: “A questo mondo ci è un buon quarto d’ora per ciascuno, poi viene il quarto d’ora d’un altro”.

Forse che Andy Warhol lesse le pagine di quella dimenticata edizione americana del Farina prima di coniare la sua celebre frase, ancor oggi inossidabile refrain della nostra luccicosa e bulimica società dello spettacolo? Misteri del “pop”.

                                                                                                                             Gian Luca Baio

 

IL GRINZONE n.31



 



 

PASTURO ACCOGLIE IL CARDINAL RAVASI


17 APRILE 2012                                                               «Antonia vi ha insegnato
                                                                                                        ad amare la vostra terra»

 

«Un percorso ricco di evocazioni e suggestioni». Con queste parole il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, ha riassunto il suo giro a Pasturo – «un pellegrinaggio», lo ha definito lui stesso, ad alcuni dei luoghi dove Antonia Pozzi ha vissuto molto tempo dei suoi brevi anni – che ha avuto due tappe, la casa dei lunghi soggiorni estivi (dove hanno accolto il cardinale suor Onorina Dino, che custodisce l’eredità di Antonia Pozzi, e Graziella Bernabò che ne è la biografa) a partire dal 1918, e il cimitero, dove la poetessa, nata nel 1912 e morta solo 26 anni dopo, nel 1938, è sepolta, come lei stessa aveva desiderato, «perché pensare d’esser sepolta qui – scrisse un anno prima della morte – non è nemmeno morire».


1_Il Sindaco accoglie il Cardinal Ravasi.jpg 2_Nello studio di Antonia Pozzi con suor Onorina Dino.jpg 3_All'ingresso del cimitero di Pasturo.jpg 4_Davanti alla tomba di Antonia Pozzi.jpg

Due tappe prima di raggiungere la chiesa parrocchiale, dove il cardinale Ravasi ha presieduto la celebrazione liturgica nel presbiterio dominato dai due grandi affreschi che Carpi ha dipinto collocando anche la figura di Antonia nelle due grandi scene di Gesù tra i bambini e del funerale della Vergine. Ai quali ha fatto riferimento proprio il sindaco del paese, Guido Agostoni, salutando il porporato e ringraziandolo per aver accettato l’invito a Pasturo. E ha fatto poi riferimento lo stesso cardinale, richiamando la cornice dei sentimenti e degli affetti, con l’invito a rivolgere lo sguardo verso l’alto, in compagnia della poetessa Antonia Pozzi.

Un invito che l’attrice Elisabetta Vergani ha subito tradotto con un’appassionata lettura di una delle poesie più belle di Antonia Pozzi, «Preghiera».

Il cardinale Ravasi ha poi concluso con una consegna a tutta la gente di Pasturo sull’esempio della poetessa: «Antonia Pozzi vi insegna ad amare la vostra terra e a ritrovare in essa i grandi segni del Mistero, i grandi segni di Dio».

Ecco perché la poesia è così importante: essa scrive nel libro segreto della nostra anima quel codice genetico fatto di ciò che ci fa essere ciò che siamo, il nostro modo di essere nel mondo, il nostro modo di dare un senso a quello che ci circonda. La Chiesa ha sempre capito che c’è un modo molto semplice di predicare, e anche molto efficace: attraverso la bellezza.

Adesso non si potrà più continuare a lavorare sugli scritti di Antonia Pozzi prescindendo dalle parole del cardinale Gianfranco Ravasi, fissate in queste pagine.

 

                                                                                                   Angelo Sala

 

 

Il SALUTO DEL SINDACO Guido Agostoni 

“La tenace conchiglia”: con questo titolo Lei, Eminenza, prendeva spunto dalla poesia L’allodola di Antonia Pozzi per ricordare, su Avvenire del 23 luglio 2011, “la virtù della tenerezza, fatta di affetto, di finezza, di dolcezza, di intensità”.
Questa lettura ha costituito l’aggancio per cui mi sono permesso di invitarLa a Pasturo, a visitare i luoghi di Antonia Pozzi, i luoghi dell’anima.
La sua risposta puntuale mi ha confermato che ci sarebbe stata un’occasione propizia per averLa tra noi. E l’occasione è stata offerta ancora una volta da padre Turoldo, lo stesso padre Turoldo che – come scrive nel suo articolo sull’Osservatore Romano – le aveva fatto conoscere “l’orizzonte umano e poetico di questa donna”, appunto Antonia Pozzi.

Grazie allora, Eminenza, per questa Sua visita a Pasturo, un paese i cui abitanti incontrano Antonia Pozzi fin da piccoli, frequentando l’asilo a lei intitolato; la incontrano anche in questa Chiesa osservando i grandi dipinti del Carpi sulle pareti a fianco dell’altare. Infine, quando accompagnano i propri cari o li vanno a ricordare, incontrano Antonia Pozzi al cimitero, perché qui a Pasturo lei volle essere sepolta.

Ma non è una presenza ingombrante, pesante, eccessiva …
È una presenza discreta, sommessa, come discreta era Antonia, che pure coi bambini di Pasturo si sentiva “morire di vergogna / davanti ai loro occhi tondi di passeri”. E aggiungeva: “(…) vorrei essere come loro, /piccina, povera, oscura” (Rossori).

Il percorso dei pannelli, recentemente inaugurato, e che Lei Eminenza ha avuto modo di osservare, si colloca in questa attenzione, discreta ma puntuale, che vede Antonia – con le sue fotografie e con i suoi versi - presente fra le nostre strade, fra le nostre case, fra la gente di questo paese, dove – come ci ha ricordato Onorina Dino durante l’inaugurazione – “trovava il luogo privilegiato per sciogliere in canto le emozioni e i sentimenti vissuti altrove, perché a Pasturo la sua ansia si placava, il suo dolore si pacificava”. Per questo desiderava che anche le persone, cui aveva voluto bene, venissero qui.

L’augurio che rivolgo a tutti prende spunto da uno degli affreschi del Carpi, prima citati, quello che vede Antonia accompagnare a Cristo i fanciulli. Penso abbia un alto valore simbolico e ben augurante, soprattutto per i nostri bambini, ragazzi, giovani: la poesia, la fotografia, l’attenzione alla bellezza, rappresentate da Antonia, possano aiutare tutti a scoprire e a coltivare i valori profondi della persona umana, la relazione fra le persone e la relazione col trascendente, che soli garantiscono una piena disponibilità a vivere positivamente il tempo presente ed una speranza vera nell’affrontare il futuro.

Grazie ancora, Eminenza, per aver accettato l’invito e voluto condividere con noi questo ricordo.



IL GRINZONE N.39