Fuga

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Dove si trova Antonia? Che cosa sta facendo? I narcisi, punto di partenza della poesia, spuntano all’improvviso con i loro «volti» sferzati dal vento. Ma anch’essi dove sono? L’unica realtà che si coglie nei brevi versi iniziali è che hanno «volti» e che li «porgono alla ventata». E ci assale un sussulto a queste parole così tenere e così intrise di angoscia rispetto alla fragilità in sé dei fiori e rispetto a ciò che essa può rappresentare su un piano simbolico agli occhi sensibili dell’autrice. Umani sono i narcisi non solo perché hanno «volti», ma soprattutto perché li «porgono alla ventata», anch’essa improvvisa, quasi in gesto di offerta di sé, di sacrificio accettato e voluto, di vittime volontarie o indifese. Inoltre i «volti» dei narcisi sono «gracili», attributo che richiama un’altra caratteristica umana, come si trattasse di bambini così delicati da essere anche deboli e quindi poco resistenti alle più piccole forze avverse. I sentimenti di Antonia premono sui suoi pensieri e i narcisi divengono «mani di bimbi» che, intrecciate e «aggrappate ai cancelli», formano siepi che li adornano, come fossero teneri cespugli fioriti.

   Sempre presenti i cancelli negli occhi e nel cuore di Antonia: quello grande della sua villa di Pasturo, che immette nel cortile dove, ancora bambina, giocava con le amichette e dove spesso, rientrando a casa, trovava un «grappolo di bimbi» che la fissavano «dritti, /senza scomporsi». Lei avrebbe voluto «essere come loro, / piccina, povera oscura»; allora il cancello diventava quasi «una porta impenetrabile», dietro la quale sottrarsi «ai loro occhi tondi di passeri […] liberi, avvezzi / ad entrare, ad uscire» (Rossori, 1931) dalle porte sgangherate delle «vecchie cascine» senza chiavi né chiavistelli. Poi c’è il cancello piccolo, stretto, in fondo al giardino, dal quale, ormai esperta arrampicatrice, usciva per raggiungere la “sua” montagna, la Grigna, quando l’alba non era ancora sorta col suo fioco chiarore a dare un po’ di luce al cielo. E, poi, ecco il cancello del piccolo cimitero di Pasturo, dove spesso sostava e dove sosterà, qualche anno dopo la composizione di questa poesia, pensando all’angolo più bello che avrebbe potuto accoglierla per il suo riposo ultimo, come scrisse in una pagina del suo diario nel settembre del 1937.

   Ma perché Fuga? Perché e dove fugge Antonia, così ansiosamente che il respiro le si strozza nel petto? Forse vuole sottrarre «i narcisi alla ventata» che vuole distruggerli e annientarli, come l’inverno, con la sua neve e il suo ghiaccio, sulla montagna ha strappato «il suo morto» alle braccia dei vivi che invano avevano tentato di salvarlo e di cui Antonia scrive nella poesia Sgelo, anch’essa del 10 maggio 1935.

   Fuga dalla morte, allora, o fuga dalla vita? Forse da entrambe. Nella fuga Antonia cerca di guardare ciò che si lascia dietro, come per dargli una consistenza, ma i suoi sguardi sono «vani ponti», non possono dar vita alle cose che sfuggono o esistono solo nel sogno e nel desiderio: «l’abisso fragoroso» è in agguato, dentro di sé e fuori da sé.

 

                                                                                                        Suor Onorina


IL GRINZONE n.81



 



Fuga


Gracili volti porgono i narcisi
alla ventata.

 

Mani di bimbi:
e siepi
improvvise s’aggrappano ai cancelli.

 

Il respiro si strugge
alla mia corsa:

 

sguardi
alle cose gettati
- vani ponti -
mi divora l’abisso fragoroso.

 

10 maggio 1935

Confidare

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La vita di Antonia Pozzi scorre su binari che si affiancano all’infinito come parallele nello spazio che non s’incontrano mai: gioia e dolore, speranza e delusione, sogno e realtà, contemplazione e riflessione, amore e morte, fiducia e disincanto.

Confidare è una poesia dove solo una è la linea su cui Antonia si muove: quella della fiducia, che comprende in sé tutto il positivo dei binari già detti: la gioia, la speranza, il sogno, la contemplazione, l’amore. Il disincanto non tarderà molto a venire, di esso traboccheranno le poesie successive e ciò che rimane del suo Diario del 1935, ma ora è il tempo del canto spiegato, a piena voce.

   «Ho tanta fede in te» scrive Antonia all’inizio della poesia, e scrivere «fede» piuttosto che “fiducia” è estremamente significativo: il termine «fede» implica, infatti, un credere profondo, senza il minimo dubbio, il minimo sospetto, il minimo tentennamento; implica la professione di un totale abbandono, di una pienezza d’amore che si consegna, credendo, a un altro amore creduto altrettanto vero e profondo, senza punti interrogativi, senza congiunzioni dubitative.

   Tale è la fiducia verso questo tu, che si chiama Remo Cantoni, che Antonia dichiara di poter «aspettare» una sua risposta «per secoli di oscurità» e, quindi, alla cieca e senza porre domande, sicura che la voce di lui un giorno si farà viva e farà uscire lei dall’oscurità, le darà vita e luce e musica di parole d’amore. Questa «fede», che Antonia dichiara, è intensa e vera come quella del contadino arabo che, dopo aver seminato l’orzo, riposa in un’attesa tranquilla, sicuro che Dio lo farà germogliare e maturare. Ed ecco che tra le due dichiarazioni di fede della prima e terza strofa appare, come per magia, il ritratto di Remo, il secondo amore di Antonia, dopo quello per Antonio Maria Cervi, che l’ha fatta gioire e più ancora terribilmente patire. Remo appare, nella seconda strofa, come una sorta di divinità, un sole che ha la forza di far «fiorire i gerani e la zàgara selvaggia» nelle «cave di pietra, delle prigioni leggendarie».

   Cava di pietra e prigione è il cuore di Antonia in questo tempo; deserto, dove lei, «arabo avvolto nel barracano bianco», attende di essere liberata e di fiorire a nuova vita, cui allude la zàgara, simbolo di amore sponsale, di quell’amore che Antonia vorrebbe vivere accanto a Remo. Di questo amore Antonia ha fatto già dono a Remo nella poesia Bellezza, in cui ogni strofa si apre con le parole: «Ti do me stessa», seguite da tutte le immagini di bellezza che hanno colmato il suo cuore in molte occasioni esaltanti della sua vita: «Ti do me stessa, / le mie notti insonni, / i lunghi sorsi / di cielo e stelle – bevuti sulle montagne […]; il sole vergine dei miei mattini / su favolose rive […]; i meriggi / sul ciglio delle cascate, / i tramonti […] fra tronchi di cipressi animati / di nidi». Tutte queste bellezze si condensano nell’ultima strofa a costituire se stessa, la sua persona, che si dona intera, ma con nel cuore il «tremito» per l’accoglienza che potrà avere il suo dono nel cuore dell’altro: «E tu accogli la mia meraviglia / di creatura, / il mio tremito di stelo / vivo nel cerchio, / degli orizzonti, / piegato al vento / limpido – della bellezza».

 

                                               Suor Onorina Dino


IL GRINZONE n.80



 



Confidare        

 

Ho tanta fede in te. Mi sembra

che saprei aspettare la tua voce

in silenzio, per secoli

di oscurità.

 

Tu sai tutti i segreti,

come il sole:

potresti far fiorire

i gerani e la zàgara selvaggia

sul fondo delle cave

di pietra, delle prigioni

leggendarie.

 

Ho tanta fede in te. Son quieta

come l’arabo avvolto

nel barracano bianco,

che ascolta Dio maturargli

l’orzo intorno alla casa.

 

8 dicembre 1934

 

 

 


 

Brughiera        

 

I

Accoccolato tra le pervinche

sfuggi

la furia ansante dei cavalli

e l’urlo

dei cani al sole.

 

Tu sei come il ramarro verde e azzurro

che del proprio rumore si spaura

e hai cari

questi ciliegi appena in fiore, quasi

senz’ombra

 

Tenui

profili di colline alle tue ciglia:

e all’orecchio

così curvo sull’erica riarsa

a quando a quando il rombo

dei puledri lanciati per la piana.

 

II

Con le farfalle raso terra

esitavi

al fiorire della ginestra:

e ad un tratto

enormi ali ti dà

quest’ombra trasvolante in rombo.

 

Ora ridi,

acciaio splendido,

all’ombroso

imbizzarrirsi dei cavalli, al pavido

balzare delle lepri fra i narcisi.

 

III

Indugiano

carezze non date

fra le dita dei peschi

e gli sguardi

d’amore che mai non avemmo

s’appendono alle glicini sui ponti -

 

Ma il fiume

è densa furia d’acque senza creste, nel grembo

porta profondi visi di montagne:

e all’immenso

svolto dei boschi trova lieve il vento,

tocca le fresche nuvole

d’aprile.

 

28 aprile 1937