Rifugio
Il 7 agosto 1934 Antonia Pozzi scrive a suo padre, Roberto, una «cartolina succinta», della cui brevità chiede perdono, ma che giustifica con queste parole: «… questa notte ho dormito alla capanna dei Jumeaux su di un pagliericcio non precisamente soffice e da stamane alle quattro sono in piedi (per non dire in mani, perché sulla roccia si tratta di quello). Nebbia, tormenta, neve negli occhi: ira di Dio. Ero sola con la bravissima guida dei Giussani, Pellissier, il quale si è compiaciuto della mia bravura e m’ha detto che farei benissimo il Cervino».
Antonia sta trascorrendo una vacanza abbastanza lunga a Breil, come scrive a Lucia Bozzi, la sua grande amica, dopo il rientro a Pasturo, il 28 agosto: «… venti giorni molto intensi, benché a volte tetri e minacciosi».
Da questa bella vacanza nasce questa poesia, datata 9 agosto, quindi tre giorni dopo la notte trascorsa al rifugio dei Jumeaux.
L’avvio della poesia riprende quanto Antonia ha scritto al padre e accenna a ciò che scriverà con animo più vero e sensibile a Lucia («Pellissier mi preparò la minestra, mentre io guardavo il tramonto e le valli lontane, azzurre delle prime ombre, e pensavo come è bella, com’è dolce la terra quando s’addormenta…»); ma, già al secondo verso, qualcosa di umano si aggiunge al paesaggio sonoro e visivo di quella notte burrascosa, fatto di tonfi di sassi e di nebbie. Sono le «Voci d’acqua»: parole, quindi, che si distinguono dal «tonfo dei sassi», dai loro cupi rumori rotolanti per i canali e che, tuttavia, hanno ancora qualcosa di pauroso, di violento, di minaccioso; parole come strepiti, che fanno rabbrividire. All’improvviso, però, – dopo una pausa di silenzio creata dalla divisione strofica – spunta un «Tu», che in mezzo alla nebbia, al buio, al fragore compie gesti dai quali emanano tanta solidarietà e, soprattutto, tanta delicatezza e cura, come di una madre verso il suo bambino stanco e infreddolito dopo una lunga camminata invernale. E cambia la scena: il pagliericcio è «duro», certo; anche le mani di Pellissier sono dure, come devono essere e sono le mani di un rocciatore, ma quanta finezza, quanta grazia, quanta tenerezza nell’avverbio «lievemente», che qualifica il gesto della guida nell’avvolgere con una coperta le spalle di Antonia, perché non prenda freddo. Così, tra il freddo e le spalle di Antonia, le mani dure dell’uomo si fanno riparo, protezione, rifugio, come le ali dell’aquila sul nido dei suoi piccoli tra rocce altissime e innevate. Allora si potrebbe pensare che il titolo della poesia suggerisca più una metafora che un luogo reale, concreto; e che, più che rimandare al rifugio alpino, alluda al rifugio più vero, più proprio al cuore di Antonia: un cuore di uomo capace di affrontare la roccia, la tormenta, la nebbia, e nello stesso tempo capace di tenerezza fraterna, pronto a farsi rifugio per il cuore e il corpo affaticato e infreddolito della giovane donna che con lui ha vinto la montagna. È questo «piano gesto», – semplice e tuttavia grande perché senza artificio – (come quello di prepararle la minestra, della lettera a Lucia) che riempie Antonia di stupore per il «grande mistero» che vive nel cuore dell’uomo: mistero di «fratellanza umana», nascosto e avvolto nel silenzio, ma più profondo e più luminoso del cielo stellato, impenetrabile dietro la coltre di nebbia di quella notte tenebrosa. Nel cuore di Antonia, le mani rozze e l’animo delicato di Pellissier diventano conforto e pace, luce e calore, contemplazione di quella bellezza che «non si vede bene se non con il cuore», come dice il Piccolo Principe di Saint- Exupéry. Dentro un paesaggio della natura, in un momento di scontro tra le sue forze, Antonia ha l’epifania del paesaggio di un’anima e, al tempo stesso, ci fa conoscere il suo.
Suor Onorina Dino
IL GRINZONE n.72