Ritorno serale

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 Scrive Antonia, in una lettera del 1929 ad A. Maria Cervi: ” Che cosa è un ritorno? Una cosa che, per qualche ora, scioglie i groppi duri che separano l’oggi dall’ieri e fonde il passato e il presente con sicurezza fresca, dove il male non ha luogo”. E, in un’altra, all’amico Remo Cantoni: “ […] ad ogni ritorno fra questi muri, fra queste cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei sentimenti più veri […] Qui non sono solo raccolte tangibilmente tutte le immagini delle persone care, dei luoghi amati e non più veduti, delle cose d’arte predilette, ma l’aria stessa è come se conservasse l’eco delle voci, l’ombra dei volti, il senso delle cose vissute”.
   Il luogo del “ritorno” è il “qui” di cui parla Antonia in apertura di Ritorno serale: Pasturo, quel “fazzolettino d’Italia” da dove manda il suo saluto a Cantoni; quel paesino che, ”al pari di un bimbo pauroso che si aggrappa alle gonne della mamma , si inerpica sul fianco della gran montagna che lo sovrasta, quasi per chiederle protezione”, come scrive in una pagina del 1926.
   La lirica prende dunque il via da un ritorno a Pasturo; il ritorno risveglia in Antonia la coscienza (“tu lo vedi”) del suo rapporto con il luogo dove trascorre di solito parte delle vacanze estive o dove si ritira quando ha bisogno di concentrazione per i suoi studi o di riposo per il suo spirito. È, per questo, particolarmente significativo che la lirica si apra e si chiuda con immagini e gesti d’amore: il “ nido” e le “ginocchia materne”, su cui “appoggiare la fronte”; il “silenzio”, che abbraccia e avvolge “nel suo manto le cose” e dona la pace , facendo tacere le cose, all’anima travagliata da un “qualunque dolore”. Così Pasturo diviene doppiamente “nido”: luogo di quiete , di silenzio riposante; “ ginocchia materne” su cui abbandonare il capo con i suoi pensieri angoscianti, le sue ansie, i suoi turbamenti; ma è anche la casa, la famiglia, la madre, soprattutto, come sottintendono quelle “ginocchia materne “ attribuite al paese. E l’immagine ci rinvia al rapporto figlia − ­­madre, ossia all’amore che legava Antonia alla madre e viceversa, se le “ginocchia materne” fanno pensare alla richiesta e al dono di affetto da parte di Antonia e alla risposta di conforto e consolazione , di protezione e di sicurezza , da parte della madre. E questo, qualunque cosa ne dica la cosiddetta biografia In riva alla vita: è, in ultima analisi, un rapporto d’amore che si fonda sulla fiducia reciproca, sulla certezza che lì “ il male non ha luogo”, non può aver luogo. Pasturo è dunque il “nido” dove la vita trova un riparo, il dolore una possibilità di scioglimento.
   La ritrovata serenità, dovuta al ritorno al “nido”, trova conferma nella nuova immagine delle “rocce, in alto” e del tramonto che tinge di rosa il cielo: vette e cielo; quanto spesso lo sguardo di Antonia è rivolto lassù? Dall’alto, dalle vette, vengono pronunciate le “parole della pace”, lette sull’infinito del cielo; eppure quelle parole di pace non sarebbero forse giunte senza la mediazione delle “ginocchia materne”. Così l’immagine si completa e si connota di un forte sentimento religioso: è una circolazione di bene che avviene, dapprima umano, ma che si fa presto divino, per quelle parole di pace che sono come una benedizione sulla vicenda esistenziale di una giornata che si chiude. E allora le domande delle campane al silenzio non mettono paura, non ansia, anche se esse indagano sui misteri più intimi all’anima: il senso del tempo che fluisce senza ritardi, il senso del vivere e del morire, di cui sono metafora la “sera”, i cimiteri dischiusi”, pronti, quindi, ad accogliere nuove vite che non sono più, “ l’inverno che si avvicina”.
   L’immagine finale del silenzio che “allarga, impallidendo, le braccia “ sembrerebbe suggerire una resa rassegnata, un gesto di sconforto e di impotenza: e, invece, no: quel suo impallidire dice il trascolorare del tramonto, prima che si stendano le ombre della sera, ed è il preannuncio della pace notturna, perché con esso trascolorano e svaniscono tutte le pene della vita, tutti i tormenti; e quelle braccia che si allargano , si allargano ad abbracciare e, nell’abbraccio, a rassicurare, a confortare, a “persuadere la quiete”.
    Si scopre, alla fine della lettura, che Antonia ha dipinto un acquerello lievissimo e ha scritto uno spartito musicale, le cui note sussurrano soltanto in un silenzio che dilaga, reso sensibile dalla presenza allitterata della s, soprattutto nell’ultima strofe. Il trascolorare dei toni di colore si fonde con il trascolorare dei toni interiori: anche l’anima è trascolorata, perché ciò che doleva non duole più , ha trovato la sua pacificazione. Sicché si potrebbe, paradossalmente, racchiudere la lirica in due soli versi, quello iniziale e quello finale: Giungere qui – tu lo vedi – persuade la quiete.    

                    

                                                                                    Onorina Dino