Nevai

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  Ho pensato di dedicare qualche puntata dell’appuntamento consueto, con la poesia di Antonia Pozzi sul tema della montagna, non più ai testi poetici veri e propri o solo ad essi, ma a dei passi di prosa, che si rivelano a loro volta vere pagine di poesia. Sarà così Antonia stessa a farci conoscere il suo rapporto con la montagna, senza la mediazione del mio commento. Le pagine che Antonia dedica alla montagna, qualsiasi essa sia, quella più prossima a Pasturo, come la Grigna, o quella più alta e più lontana delle Dolomiti, danno al lettore la misura e la profondità dei suoi sentimenti: il sentimento della vita, innanzi tutto, per la fatica e la lotta che la montagna esige per essere conquistata, ma anche della gioia e della pienezza che dalla conquista derivano; il sentimento della terra, come radicamento e appartenenza, fino a diventare un legame quasi umano con essa, come con una creatura vivente, con la quale si possa comunicare e scambiare emozioni e fremiti; il sentimento dell’elevazione spirituale e morale, della ricchezza interiore, dell’esaltazione dello spirito che la montagna suscita con il suo splendore e le sue ombre, con le sue cime e i suoi precipizi e i suoi fiori; il sentimento vivido e intenso dell’umano e della sua ricchezza, che comunica anche senza parole, con uno sguardo, con lo stesso silenzio; il sentimento della solitudine e della gioia che da essa scaturisce, perché solo nella solitudine ci si misura con se stessi e si può quindi entrare in relazione profonda con la realtà circostante e con gli altri.    

   Sentiremo, alla fine, che il “ tremito leggero del silenzio”, che pervade il brano che pubblichiamo, traendolo dalle Lettere (Archinto, 2002), è lo stesso tremito che trascorre nell’anima di Antonia, che si fa a sua volta silenzio di contemplazione, capace di com-prendere, ossia di accogliere e di assumere in perfetta sintonia, dentro di sé, le varie voci della bellezza, fatte di visioni o di suoni percettibili soltanto con l’occhio e l’orecchio dello spirito.

 

Pasturo, 28 agosto 1934

“[…] Al Breil rimasi fino al 10 di agosto: venti giorni molto intensi, benché a volte tetri e minacciosi; ora li ricordo come un miraggio lontano […]

   Nelle mattine serene, salivo sola alla morena del Fürggen, che è cosparsa di fiori meravigliosi; e lì restavo per delle ore, nel sole violento.

   A 3000 metri, sotto le immense pareti del Cervino, sola come la prima anima sulla terra, portata avanti da quel vento che non è neppur vento, che è come il tremito leggero del silenzio e che solo il fischio di una marmotta lacera o il cadere delle slavine.

   Molto in alto fui soltanto due volte: in una giornata splendente sulle creste del Fürggen, che è facile facile, ma in uno scenario incomparabile; e in una orrenda giornata di nebbia e di neve, sulla becca di Guen, che non è difficile, ma dove ci si prova abbastanza sulla roccia. Giornata orrenda; ma siccome ero sola con Pellissier, la bravissima guida del Cervino, e dormimmo al rifugio dei Jumeaux (per la strada ci eravamo colti dei legni di rododendro morti per accendere il fuoco – Pellissier mi preparò la minestra, mentre io guardavo il tramonto e le valli lontane, azzurre delle prime ombre, e pensavo come è bella, com’è dolce la terra quando s’addormenta), credo che me ne ricorderò a lungo. Alla sera accesero dei fuochi, giù al Breil, ed anche noi incendiammo, su di una roccia, un fascio di paglia e le scintille volavano giù nella notte […]

   Quando poi parlai della mia gioia della solitudine, qualcuno si stupì: chi mi capì e mi approvava senza parlare, solo col cenno dei suoi magici occhi azzurri, era Guido Rey. Che occhi, Lucia! Color pervinca, cielo dopo la tempesta, fiaba: si pensa ai secoli di luce sepolti oltre le vette, oltre le nubi. Si resta muti a guardarli, a berli, ci si perde in un prato di prodigiosa innocenza, in un fiume di silenzio. Oh la sua voce dolce di vecchio, nella sua casa di pietra e di legno! Le sue mani pallide, scarne, sul tavolo scuro di abete – o levate a benedire! Che bello, che bello, Lucia, avergli parlato, aver sentito che lui mi capiva, ch’era contento quando andavo a trovarlo! Che gioia vedere il suo fuoco, quella notte, su dal rifugio […]”.  

                                                                      

                                                                              Onorina Dino