ANNIVERSARI COMUNITARI
Quest’anno, nella ricorrenza del Corpus Domini, sono stati festeggiati tre sacerdoti che operano nella Comunità Pastorale “Maria Regina dei Monti”: il parroco don Lucio, il prete residente a Pasturo don Antonio e il responsabile della pastorale giovanile don Gianmaria, rispettivamente per il 45°, il 55° e il 5° anno di sacerdozio.
A loro abbiamo chiesto qual è l’esperienza più significativa del loro essere prete e quale il ricordo più coinvolgente della loro permanenza in Valsassina.
Don Lucio Galbiati
Arrivato alla tappa dei 45 anni di ordinazione sacerdotale, brevemente tre considerazioni.
1. Ho iniziato il ministero nella convinzione che la mia vita sacerdotale avesse un senso se la vivevo dedicandomi totalmente alla gente che mi era affidata. Per fortuna non sono mai stato dietro una scrivania: sono sempre stato in mezzo alla gente. Questo mi ha aiutato molto.
Lasciarmi educare dalla gente è stata una scelta e un’esperienza meravigliosa perché mi ha aiutato ad avere i piedi per terra, a immergermi nella concretezza della vita quotidiana delle persone, a maturare come uomo e come prete.
2. L’educazione che abbiamo ricevuto in seminario era focalizzata ad essere autonomi, autosufficienti: del tipo “ognuno deve correre nella sua corsia” - come si fa nell'atletica -, “ognuno deve faticare e bastare a sé stesso, deve arrivare al traguardo con le sue forze”. Un’impostazione un po’ volontaristica, ma soprattutto molto individualista. Ora non è più possibile, per fortuna.
Ho dovuto operare inevitabilmente un cambiamento, quasi da subito, perché lavorare da soli non è costruttivo, non si va da nessuna parte. Oggi si usa una parola che, purtroppo, è un po’ inflazionata ma che è molto importante. Credo che sarà per forza di cose la prospettiva del futuro: mi riferisco alla parola sinodalità, camminare insieme.
Mi viene in mente l’immagine dei discepoli di Emmaus: camminavano insieme al Signore e non capivano che era lui. Erano chiusi dentro se stessi. Quando però si sono lasciati un po’ aprire il cuore dall'amore del Signore, dalle sue parole e hanno alzato lo sguardo lo hanno riconosciuto.
Camminare insieme è certamente il modo concreto più idoneo per trovare le risposte ai passi giusti, al bisogno di evangelizzazione che avremo sempre davanti agli occhi.
3. Un prete significativo nel futuro dovrebbe dotarsi di tre qualità.
Innanzitutto, deve essere un prete che è esperto in umanità. In una società come la nostra che diventa sempre più disumana, violenta, individualista c'è bisogno di testimonianze di umanità. L'umanità è quella capacità di sentire che dentro la nostra vita possiamo far trasparire Dio. Gesù si è incarnato per questo. Nella sua carne ha mostrato il vero volto di Dio: che è amore, andare incontro ai bisogni dell'altro, coltivare la capacità di ascolto, portare i pesi gli uni degli altri. Questo è il prete esperto in umanità.
Una seconda caratteristica è l'umiltà. Occorre rendersi persuasi che non sappiamo tutto noi, non siamo i più bravi di tutti: siamo semplicemente persone che si impegnano e cercano di fare il loro meglio. Questo è quello che noi dobbiamo avere nel cuore: l'umiltà di sapere che ciò che conta, ciò che mi guida è la Parola di Dio. Il mio impegno è quello di ascoltare questa Parola e metterla in pratica con semplicità e umiltà; perché noi non convertiamo nessuno: “è Dio che fa”. Il rimando al Vangelo è inevitabile: “Siamo poveri servi, abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Luca, capitolo 17).
Infine, la gioia. Non facciamo parte della tribù dei musi lunghi, come dice il Papa. Siamo nella gioia perché noi sappiamo che la nostra vita ha un senso. Gesù è venuto a dirci questo: la vita ha senso perché la vita non finisce nella tomba ma continua nell'eternità. Nella società di oggi, che ha perso anche la speranza, vedere gente che è contenta, serena, gioiosa - non perché siamo gente fuori di testa, un po’ svagati ma perché abbiamo una certezza: la nostra vita è bella - può essere una testimonianza costruttiva, può aiutare gli altri. La nostra è una vita di speranza, la speranza che è fondata sulla certezza di Gesù che ha vinto la morte con la sua risurrezione. Noi dobbiamo dirlo al mondo con la nostra gioia, con la nostra serenità e il mondo capisce che la nostra gioia è una gioia vera.
Don Antonio Fazzini
Sto salendo verso San Calimero e il passo tranquillo mi consente di ripensare questi miei 55 anni di sacerdozio.
Verso Cornisella, ascoltando i rintocchi dell’Ave Maria della campana di Pasturo, mi chiedo chi o che cosa mi abbia spinto a farmi prete. Non ho mai avuto apparizioni o rivelazioni mistiche, non ho sentito voci celestiali che mi chiamavano. Se devo trovare qualcosa che potrebbe essere la spinta iniziale mi rivedo mentre percorro con mio papà i sentieri che da Premana portano all’alpeggio di Casarsa, dove ci attendono le mucche da portare al pascolo. Mio papà, un santo uomo, morto troppo giovane, mi parla e mi racconta piccole e grandi storie. Sono storie semplici ma per me affascinanti, storie di vita, storie di santi. Un giorno, quasi a bruciapelo, mi chiede: “non ti piacerebbe diventare prete?”. È come un colpo a tradimento. E io rispondo: “Sì, mi piacerebbe!”. E tutto ha inizio lì.
Mentre affronto le salite di Risciöl, ripercorro gli anni di seminario: lunghi anni di ripensamenti, di verifiche, di prospettive esaltanti, di sogni grandiosi, ma anche di incertezze e di paure.
Mentre la strada si inerpica verso San Calimero, mi accorgo che, a distanza di tanti anni il mio passo sta diventando tranquillo e senza pretese. Non ho più l’ossessione del cronometro, sento che posso concedermi uno sguardo che ora sa soffermarsi sulle piccole cose: su due lepri che si rincorrono nei prati, sul variare del colore delle stagioni. Posso fermarmi ad ascoltare i lamenti dei contadini per un lavoro che è sempre più ingrato e incompreso (adesso mancava solo l’arrivo dei cinghiali! …). Posso ringraziare il Signore per quella madre che con ostinato amore mi insegna la pazienza e la fiducia. Risento l’entusiasmo dei ragazzi dell’oratorio e degli instancabili animatori e penso che questi semi buoni sono garanzia di una comunità sana e promettente. Posso ammirare la dedizione di tanti che, giovani o pensionati, si dedicano gratuitamente, nelle forme più varie, al bene della comunità. Posso riconoscere quei segni di una santità popolare che si manifesta in gesti di paziente e generosa dedizione. Posso gustare la bellezza di tante ore trascorse in confessionale, testimone di veri miracoli di vite che risorgono.
Oggi è una giornata spettacolare, limpida e luminosa che mi consente di abbracciare tutta la cerchia delle Alpi e di soffermarmi sulle mie montagne: il Legnone, il Pizzo Trona, il Pizzo dei Tre Signori. Quante magnifiche escursioni negli anni di seminario, con un pezzo di formaggio, una mezza luganiga e un quartino di vino nello zaino.
E poi in quella luminosità abbagliante di San Calimero lo sguardo si allarga e si distende oltre i colli della Brianza e rivedo e ritrovo luoghi lontani che sono stati la mia casa, il luogo del mio ministero di prete. E li rivedo tutti con gratitudine perché ovunque sono stato accolto con amorevolezza, ovunque mi sono sentito apprezzato, compreso e compatito. Ovunque ho sperimentato la mano del Signore su di me come un padre che con pazienza mi ha dato fiducia.
Entro nella chiesa e mi trovo faccia a faccia con San Calimero. È un quadro di una bellezza straordinaria che mi ha sempre affascinato. Il volto sereno e austero, incorniciato da quella copiosa barba, come quella dei contadini di Pasturo di una volta; i paramenti pontificali dipinti con la delicatezza di un ricamo prezioso; il pastorale e la mitra che mi parlano della solennità di un ministero che anche a me è stato dato di vivere.
A questo punto sento che San Calimero mi suggerisce pensieri di preghiera. E mi suggerisce le parole giuste, le parole che, vorrei, fossero il sigillo della mia vita di prete; le parole di San Paolo che sono un po’ come il suo testamento:
“ … ho servito il Signore… Non mi sono mai sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio … Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza… Lui mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli”.
Don Gianmaria Manzotti
Cinque candeline sono poche rispetto alle 55 di don Antonio o alle 45 di don Lucio.
Cinque anni che mi hanno introdotto nel ministero e di cui ringrazio preti e laici che mi hanno e continuano ad accompagnare. Le esperienze significative sono molteplici, ma l'esperienza più bella é quella di andare e viaggiare nella Valle per incontrare, ascoltare e accompagnare i ragazzi e i giovani nella loro vita di fede. É un'esperienza quotidiana ma come ben dice il beato Luigi Monza: "La santità non consiste nel fare cose straordinarie, ma nel fare straordinariamente bene le cose ordinarie".
In questi cinque anni di ricordi ne ho archiviati diversi; oltre a ricordare i bellissimi campeggi estivi e invernali con i ragazzi delle medie e gli adolescenti e alla vita degli oratori quotidiana, ricordo molto bene quando mi avete accolto in queste bellissime terre. In modo particolare mi sovvengono alla mente i volti dei giovani e meno giovani emozionati e speranzosi per l'arrivo di un prete novello e le prime parole di diversi di voi che mi chiedevano di essere un prete che si metteva in ascolto. Vi chiedo di continuare a pregare per il mio ministero affinché questa esperienza quotidiana di ascolto e accompagnamento possa testimoniare l'amore gioioso del Signore Gesù.