PASTURO MANZONIANA
La geografia dei Promessi Sposi è stato un argomento intrigante per tutti i lettori o gli studiosi, fin dal primo apparire (1827) del testo. La precisa delimitazione geografica della vicenda, che si svolge tutta nell’arco breve di qualche decina di chilometri (Lecco, Monza, Milano, Bergamo), unita alla parziale reticenza dell’autore per alcune precisazioni che sembrano sapientemente e appositamente evitate (una per tutte e fondamentale: ma quale è proprio il paese dei due promessi?), hanno stimolato le verifiche e le indagini in tale direzione di molti cultori del romanzo. I lecchesi e gli abitanti dei dintorni vi hanno portato a buona ragione un bel contributo di ricerca, per l’amore verso il loro scrittore e per la naturale esperienza di luoghi che per tanti lettori sono solo letterari ma per chi ha la fortuna di praticare ordinariamente queste contrade sono prima di tutto il proprio amato scenario familiare. Ricordo con piacere due contributi ancora preziosi su tali argomenti: uno che è il classico diremmo della materia, la famosa monografia (corredata da opportune cartine) di Giuseppe Bindoni, La topografia del romanzo “I Promessi Sposi”, edita più volte (io ho tra le mani l’edizione Vallardi 1951), cui potremmo affiancare la guida più agile ma puntuale e chiara (doti ben riconosciute al compianto autore) ai Luoghi manzoniani a Lecco (1991) dello studioso lecchese Aroldo Benini, ancora oggi credo normalmente in distribuzione.
Pasturo fa il suo ingresso nel testo manzoniano in una circostanza niente affatto piacevole. Nel capitolo XXIX l’anonimo paese dei due protagonisti e di don Abbondio è in subbuglio, perché sa di doversi preparare ad affrontare l’urto crudele e disordinato della avanzata dell’esercito alemanno che scendeva dal nord Europa per raggiungere la campagna di Mantova. La strada percorribile, dalla Svizzera, non poteva che svolgersi per la Valtellina e poi, lasciato il lago la cui riva orientale era allora in gran parte impraticabile, doveva rimontare la Valsassina, attraversarla, quindi scendere a Lecco, da cui proseguire con minori difficoltà nella pianura padana. Va da sé che lungo tutto il percorso le devastazioni e le rapine operate da quelle truppe, mercenarie e fameliche, non si potevano contare. La comunità dei nostri personaggi è dunque in grande angoscia e le voci che precorrono il comparire dell’esercito temuto si fanno sempre più precise. Nel Fermo e Lucia tali voci sono esplicitamente rese da un anonimo virgolettato: “... hanno saccheggiata Cortenova, hanno dato il fuoco a Primaluna, disertano Introbbio, Pasturo, Barzio, si sono veduti a Ballabio, son qui, son qui” (Tomo IV, cap.II).
Il brano ritorna poi con minime variazioni nella redazione definitiva dei Promessi Sposi: superato il discorso diretto, perché il contesto ampliato ha incrementato ancor più il pathos della circostanza, trasposto al maschile il toponimo di Cortenova, sostituita la voce verbale disertano con la più chiara devastano, mutata dialettalmente la pronuncia di Barsio e preferita infine la grafia Balabbio. Questa comunque la dolorosa strada che l’esercito calamitoso percorse, imperversando con rapine e violenze e, ancor più dolorosamente, spargendo la trista semina della pestilenza.
Ma la vicenda di Renzo e Lucia deve proseguire. Lucia si trova a Milano, dove per sfuggire al prepotente don Rodrigo finirà con l’essere proprio al centro del cratere vulcanico della pestilenza. Renzo, sopravvissuto al contagio, riprende da par suo tra le mani il filo della propria esistenza e lascia la sicura terra bergamasca per ritrovare chi ama.
Ecco allora che tutti ricordiamo come la saggia Agnese per scampare la pestilenza tremenda si rifugia a Pasturo, dove l’infaticabile Renzo si spinge a ritrovarla. Da questa circostanza particolare si origina la gloria manzoniana del nostro borgo valsassinese, di cui tutti siamo da sempre compiaciuti.
Sono le parole prudenti (come al solito) del vecchio curato a far comparire il nostro nome, quando comunica a Renzo, ricomparso al suo paese originario, che “(Agnese) è andata a starsene nella Valsassina, da que’ suoi parenti, a Pasturo, sapete bene; ché là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui”.
Nella sostanziale incapacità della scienza e della medicina di allora di fronteggiare la malattia contagiosa, tuttavia ognuno sapeva che i luoghi di campagna, meno affollati e periferici, erano un poco risparmiati dalla peggior violenza del contagio. Le frasi del curato però dicono anche qualcosa di più. Apprendiamo che l’origine di Lucia, lasciata nel vago dallo scrittore (che a un certo punto nei suoi manoscritti si chiese se dovesse per esempio darle un padre) era in parte valsassinese, anzi che Agnese aveva certamente origine in parte da Pasturo.
Inoltre piace pensare che le ragioni di questa scelta manzoniana del ricovero di Agnese (dove infatti eviterà il rischio del contagio) possano anche essere collegate alla particolare amenità e floridezza della piana di Pasturo, contornata dalle sue pendici della Grigna. Agli occhi del Manzoni Pasturo non era un luogo cui lo obbligasse (nel bene e nel male) una storia familiare antica (come invece potrebbe essere per Barzio da cui aveva origine la sua famiglia e dal cui patrono aveva preso egli stesso il nome); e potremmo immaginare altresì che dalla casa e dai prati della casa avita di Barzio tante volte il giovanissimo Alessandro avrà goduto il bel paesaggio, soprattutto nel tramonto, costituito dal quieto adagiarsi dell’abitato di Pasturo che fronteggia l’opposto lato della valle.
Prima di raggiungere Agnese in Valsassina Renzo deve però trovare la sua Lucia, si avvia quindi pieno di timore verso Milano, dove tra avventure atroci o impreviste (come il ritrovarvi proprio il padre Cristoforo) finirà per incontrare Lucia, rassicurarla sulla salvezza della madre e su dove si trovi, per poter riprendere con la sua promessa il progetto di vita comune che tanto li aveva fatti soffrire. Allora bisogna tornare a comunicare le buone notizie anche alla povera Agnese e questa volta a Pasturo occorre andarci sul serio e non più solo con le parole di don Abbondio. Siamo al capitolo XXXVII e Renzo prosegue il suo instancabile cammino fin lì.
Da quel montanaro che è, la salita da Lecco gli impegna poche ore, vi arriva infatti che è ancora mattina. Gli viene indicata la casa un po’ isolata dove soggiorna Agnese; la raggiunge e dalla strada (non si trattava né della inesistente provinciale, né della odierna via Manzoni - ma sarà stata una bella strada bianca e polverosa) il giovane chiama a voce la sorpresissima Agnese, cui subito comunica che la perduta figlia è viva e potrà ritornare. E’ una delle scene più sentimentali di tutto il testo, epperò Manzoni non a caso la liquida in poche righe (per la consueta intenzione di sfuggire le corde troppo facilmente romantiche del racconto). Agnese vorrebbe invitare Renzo dentro la casa, ma la prudenza consiglia a entrambi di evitare il contatto così prossimo e scelgono allora di parlarsi in un orto lì presso. Agnese infatti “gl’indicò un orto ch’era dietro alla casa” dove si trovavano due semplici panche. Ogni minimo conoscitore della vecchia Pasturo può qui immaginarsi uno dei tanti orti che ancora si vedevano e in parte tuttora si vedono dietro le case del nucleo storico, per esempio salendo verso la Grigna dal centro del paese.
Siamo giunti alla fine della nostra semplice riflessione: Agnese tornerà alla sua abitazione consueta, sarà raggiunta dai due promessi; tutti insieme, dopo la celebrazione del matrimonio da parte del renitente vecchio curato, si trasferiranno sulla bergamasca per iniziare una nuova e più normale esistenza. E così, dopo le otto occorrenze presenti nei Promessi Sposi, finisce anche la presenza di Pasturo nelle opere manzoniane.
Poco forse si dirà, per giustificare il titolo posto in cima. Ma nei brevi tratti di una presenza geografica valsassinese più circostanziata di altre, nella comparsa di un toponimo che fa il suo ingresso nel romanzo in sede di rielaborazione del testo (a indicare quindi la volontà più deliberata e pensata di recuperarne il nome), i lettori che amano il nostro Pasturo potranno a buon titolo sostenere di aver percepito il segno discreto di una affezione sincera.
Renato Marchi
IL GRINZONE n.31