ARMENIA: TERRA DI CROCI FIORITE
Che si trattasse di un pellegrinaggio ci è stato detto subito, la sera stessa in cui il viaggio in Armenia è stato presentato un mese prima della partenza. Un pellegrinaggio al di fuori degli schemi: non abbiamo infatti visitato nessun santuario, ma abbiamo vissuto l’esperienza dell’incontro con un paese e con un popolo di antica fede cristiana.
L’Armenia fu il primo Stato, nel 301, a convertirsi al Cristianesimo su impulso di San Gregorio l’Illuminatore, e da allora è sempre stata fedele a questa “conversione”. Un popolo, che ora conta poco più di tre milioni di abitanti, ha saputo mantenere la fede cristiana, nonostante fosse circondato da Stati che di abitanti ne contano oltre 100 milioni e tutti di religione islamica. Durante quasi due millenni tutt’altro che facili, gli Armeni hanno dovuto combattere e resistere ad invasioni da est (Mongoli) e da Ovest (Turchi), a terremoti, pesanti e distruttivi, a veri e propri “genocidi” (l’ultimo nel 1915 ad opera dei Turchi), alla dominazione sovietica dal 1920 al 1991, ad un altro terremoto pochi anni dopo…
Per sopravvivere a queste tragedie molti Armeni sono stai costretti ad emigrare. La “diaspora” (così è chiamata l’emigrazione della maggior parte della popolazione in diversi Stati del mondo dove ha costituito delle comunità di armeni) anziché costituire una debolezza si è rivelata una salvezza per il popolo armeno. Elena ed Attilio di Meda, che facevano parte del pellegrinaggio, così hanno scritto: “Oggi la forza dell’Armenia è la dispersione del suo popolo nel mondo, emigrazione obbligata per la povertà, la fame, la persecuzione, ma ciò senza dimenticare la propria cultura, l’appartenenza ad una nazione che della Croce fa il suo simbolo e il suo credo. Una Croce fiorita, una Croce che non porta impressa l’immagine di un Cristo sofferente, ma richiama a Cristo quale salvezza in quanto resurrezione in una nuova vita. Una Croce alata che sprigiona la speranza, la certezza di un volo verso un mondo nuovo e giusto, senza sofferenza”.
L’Armenia mi aveva sempre attirato: per i richiami biblici al Monte Ararat dove sarebbe “approdata” l’Arca di Noè dopo il diluvio; per la storia legata al genocidio (vedi “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan); per i monasteri arroccati sulle montagne…
I Monasteri hanno costituito il fil rouge che ha legato i cinque giorni di permanenza in Armenia, monasteri per lo più costruiti in posti solitari, che tuttavia nel corso dei secoli hanno costituito il punto di riferimento della popolazione e il “collante” della fede professata.
Il Museo del genocidio, nella capitale Erevan, permette di incontrare e rivivere il dramma del popolo armeno, con le indicibili sofferenze e le tante vittime dello sterminio del 1915 ad opera del governo turco che continua a negare una realtà riconosciuta da tutto il mondo.
Il Monte Ararat, simbolo dell’Armenia, si trova oggi in territorio turco, per cui si arriva solo a vederlo, imbiancato di neve coi suoi 5.137 metri; se ne respira tuttavia un alone di mistero, che alcune ricerche recenti hanno cercato di svelare, trovando per la verità alcuni riscontri significativi, come travi di legno che i ghiacciai fanno riaffiorare…
Durante il pellegrinaggio di particolare rilevanza sono stati gli incontri:
- con un prete della Chiesa Armena (oltre il 90% della popolazione) e con uno della Chiesa Cattolica Armena (una piccolissima percentuale della popolazione): entrambi hanno manifestato la loro fede nello stesso Dio sottolineando più le cose che uniscono rispetto a quelle che creano differenza e dividono;
- con la piccola comunità delle Suore di Madre Teresa che si occupano di minori abbandonati e altri con gravi handicap;
- soprattutto con un popolo consapevole e fiero della propria storia, come la signora Araksya Stepanyan, la nostra guida, ci ha saputo illustrare e testimoniare. Storia di sofferenza ma anche di volontà di riscatto, storia di oppressione ma anche di lotta per la libertà.
Stato indipendente dal 1991, l’Armenia sta progressivamente e con determinazione costruendo il proprio futuro.
Guido
IL GRINZONE n. 60