Bellezza
Due parole sulla lirica che chiude il libro “Nelle immagini l’anima”. Quando dovetti pensare alla quarta di copertina, non ebbi alcun dubbio che ci dovesse andare una poesia, ma in forma di manoscritto, che completasse in modo armonico e personalizzato il volume; e quando pensai alla poesia, mi venne subito in mente questa, e nessun’altra: Bellezza. “Ti do me stessa” - dice il primo verso - e pensai: ecco Antonia si dona, ancora una volta, come sempre fece nella sua vita, fin da bambina, con quella larghezza e magnanimità che le erano congeniali e che non negava mai a nessuno, fossero amici, o bimbi o vecchi o poveri, come quelli di via dei Cinquecento.
A chi dona se stessa, A. Pozzi? Quando compose la lirica, certamente a una persona cara; oggi, fuori ormai dalla situazione contingente, si dona al lettore, a noi che “leggiamo” le sue fotografie, uscite prima dalla sua anima che dalla sua macchina fotografica. Non a caso il libro si intitola “Nelle immagini l’anima”: senza anima non c’è immagine vera; può esserci un documento, più o meno bello, più o meno preciso, ma documento: uno spazio, un tempo, un momento di vita, che resta comunque distaccato e lontano, come fosse guardato da un occhio impersonale, distante, freddo; appunto, l’occhio della macchina.
Antonia stessa, nella lettera con la quale accompagnava il dono di molte fotografie a Dino Formaggio, scriveva «…tu dici che nelle fotografie si vede la mia anima e allora eccotele».
«Eccotele»; «Ti do me stessa», sono le parole che può e dovrebbe sentire risuonare sottovoce, da questo libro, come una «lieve offerta», chiunque lo apra. «Ti do me stessa»: è ripetuto per tre volte, all’inizio delle prime tre strofe, come fosse un’urgenza il darsi, ma un’urgenza anche l’apertura al dono da parte del destinatario, che oggi siamo noi, a cui Antonia chiede di accogliere la sua «meraviglia di creatura», il suo «tremito di stelo/vivo nel cerchio degli orizzonti». E, in questa urgenza, si può anche avvertire che il dono non è solamente dono, ma è una consegna: di sé e di ciò che, penetrato attraverso il suo sguardo, ne ha nutrito lo spirito ed è diventato suo. Come se Antonia Pozzi ci dicesse, con questo libro: ecco, ti do tutto ciò che ho amato e che è divenuto me stessa: accoglilo, fallo tuo, allarga anche tu il tuo sguardo, bevi anche tu alle sorgenti; c’è un mondo da contemplare, ci sono bimbi e vecchi da amare, da accarezzare, da consolare (queste riflessioni, se non proprio con queste parole, si ritrovano nell’abbozzo di romanzo); è come se dicesse: ci sono cieli stellati e montagne, sovrane e vigili, nella loro fuga immobile verso il sole; ci sono mari infiniti, che chiedono al tuo sguardo di farsi infinito; ci sono tramonti infiammati, che chiedono al tuo spirito di infiammarsi con loro; ci sono prati, che invitano la tua anima a distendersi in un respiro di eternità; ci sono uccelli, che ti chiedono di sollevarti dalla terra, per vederla meglio, per amarla di più; ci sono orizzonti che ti dicono: coraggio, avanti, la vita è altrove, non fermarti qui, non chiuderti nel piccolo cerchio dei tuoi problemi o delle tue angosce: pensa in grande.
Si può dire che Antonia Pozzi ci consegni, con queste fotografie, il suo sguardo. È uno sguardo che si posa e si irraggia in tre direzioni fondamentali: le cose, le persone, il sacro o divino.
Le cose: sono le creature della natura, quelle che già sono state nominate: monti, stelle, cieli, nuvole, animali, alberi, campi, il pallore dell’alba, la luce assolata dei meriggi, il fuoco dei tramonti, la frescura della brezza, l’ombra della sera. Lo sguardo di Antonia Pozzi sosta in contemplazione di questo mondo variegato, vicino e lontano, con tutte le sue sfumature di bellezza alta e solenne o semplice e quotidiana. C’è poi lo sguardo sulle persone: è uno sguardo umile, affettuoso, partecipe; bambini e vecchi, soprattutto, in relazione profonda; giovani e adulti impegnati nel loro faticoso lavoro, guardati con simpatia, con interesse, come esempi di umanità che fa la storia del proprio paese, che rende viva la vita. Questo sguardo sulle persone è quasi sempre uno sguardo nello sguardo, uno sguardo nell’anima, non mosso dalla curiosità, ma dall’intima partecipazione alla loro innocenza, alla loro tenerezza, ai loro pensieri, alla loro supplica, ai loro desideri, ai loro sogni; a tutto ciò che è umano e merita, quindi, attenzione, vicinanza, comprensione, solidarietà. Infine lo sguardo orante, che è forse quello più interiore e più angosciosamente vivo: Antonia Pozzi ritrae con frequenza immagini religiose e quasi sempre ispirate a due soggetti: la Vergine col Bambino in braccio e la croce o il Crocifisso; senza dimenticarne altre, come, ad esempio, i due bambini, sorpresi al momento dell’angelus della sera presso una cappellina in mezzo a un prato. Che cosa spinge la poetessa a cercare e a fissare nella fotografia questi due soggetti, così ben definiti e presenti anche nella poesia? Forse è inutile porsi questa domanda, ma la fotografia che ritrae una donna in piedi davanti a un Crocifisso, in atto di guardarlo, potrebbe dirci qualcosa: certo riflette, medita, lo interroga, si interroga.
Antonia Pozzi visse tutta la vita come una continua domanda, si potrebbe dire come una preghiera, espressa rarissime volte, ma vissuta nella contemplazione della natura, nella fratellanza con gli uomini. Perché non c’è contemplazione o fratellanza che possa escludere la preghiera, almeno quella fatta di silenzi e di sguardi. E ancora con uno sguardo si chiude la lirica, uno sguardo che coglie nello sguardo altrui, la bellezza creatrice di Dio: «… e tu lascia ch’io guardi questi occhi/ che Dio ti ha dati/ così densi di cielo, profondi come secoli di luce…».
Poesia e fotografia ci dicono, allora, l’anima di Antonia Pozzi, il suo amore per la vita, la ricchezza di umanità, la sua ricerca di assoluto, la sua “meraviglia di creatura”, al cui sguardo nessuna bellezza sfugge, anzi la fa tremare come uno stelo e la fa soffrire, come si può leggere in una dedica a Dino Formaggio, sul retro di una fotografia: «…a chi tocchi di camminare a lungo da solo per una strada così bella, capita magari di trovarsi ad un tratto disteso per terra tutto in un pianto, perché ci sono soavità così perfette che fanno orribilmente soffrire…».
Onorina Dino