Odor di verde
A leggere questa lirica, ma non solo questa, si può capire quanto Antonia Pozzi abbia vissuto consapevolmente tutta la sua vita, a cominciare dall’infanzia, età definita, generalmente, dell’inconsapevolezza, dei giochi, dei sogni a occhi chiusi o aperti che siano; infatti le basta un odore per ritrovare dentro di sé questa tappa della sua vita, nella quale ha fatto esperienza, ed esperienza consapevole quindi, di odori e di colori, di emozioni felici o tristi che si sono impresse nella sua mente, per sempre, mentre «le gambe assassinate, tutte piene di lividi e di spelate» e «i morelli [sulle braccia] che son nientemeno che due pizzicotti del Carlo» – come racconta in una lettera dei suoi dodici anni alla mamma – dicono tutta la sua vivacità e la gioia di divertirsi con gli amici coetanei durante le vacanze estive; dicono quella che lei definisce «sventatezza » di bambina, nella poesia dal titolo omonimo.
La lirica si apre con una sensazione – odor di verde – che la bambina Antonia deve avere avvertito fortemente, respirata profondamente e vissuta in modo intenso, se essa è rimasta così scolpita nella sua memoria olfattiva e visiva: non è banale, infatti, che l’odore dell’erba calpestata nei prati e strappata «in riva ai sentieri» per comporne piccoli mazzi con i fiori di campo, sia diventato semplicemente «odor di verde», con un ossimoro che contiene l’erba stessa, con il suo colore e il suo odore. Così, un odore diventa un tempo improvvisamente ritrovato, ma con la coscienza, nostalgica e triste, che esso è ormai passato, appartiene all’infanzia; il suo recupero è possibile soltanto nella memoria e nessuno potrà mai restituirlo: è un tempo perduto. Ora l’orgoglio infantile dei «ginocchi segnati», la «sventatezza» della «bambina/ col trecciolino smilzo ed un prurito di pazze corse su per le ginocchia», l’ardente « desiderio di scattare fuori,/ nell’invadente sole, per raccogliere/ un pugnetto di more da una siepe» (Sventatezza), si condensano in questo «odor di verde», «odor di boschi d’agosto – al meriggio –», nel brivido dell’acqua fredda del ruscello, che scuote le forze vitali e le rimette in moto con nuova energia e nuovo slancio; nella luce - calore del sole, nell’«odor di terra»: tutte queste sensazioni – emozioni – ricordi sono la sua «infanzia perduta». Nel 1934, a ventidue anni, Antonia Pozzi sogna e rivive la favolosa età dell’oro, perduta: ora, certamente, non strappa più l’erba e fiori «inutilmente»: la pienezza di vita di allora, che le faceva buttare via l’erba strappata, per avere libere le mani – forse per strapparne dell’altra, per prendere qualche insetto, qualche ciottolo da far rimbalzare nell’acqua del ruscello, ora è «infanzia perduta»; e se ancora Antonia Pozzi si libera le mani, lo fa perché ciò che esse stringono contraddice la vita, come in Filosofia: «Non trovo più il mio libro di filosofia. […]/ Quel che m’ingombrava le mani, l’ho buttato via». Che cosa è, infatti, il sapere dei libri? Antonia ha imparato che il sapere è vita in atto – «un marmocchio di otto mesi – robetta molle, saliva, sorrisino – »; sa che il sapere è la vita che sferza, che annienta; è «il riso velato – un povero riso in sordina –» della mamma del “suo marmocchio“ , che s’è vista strappare l’altro bimbo da una sorte atroce; e questa lirica, Filosofia, è del 1929: Antonia ha diciassette anni.
Se, dunque, l’infanzia è dichiarata «perduta» a ventidue anni, in realtà, Antonia non l’ha mai pienamente posseduta, per la coscienza vigile con cui l’ha sempre vissuta.
Nella natura sensibilissima della bimba s’insinua, da tutti gli angoli, la visione della vita, della vita come gioia e dolore insieme, e il dolore non è soltanto il suo, ma quello di tutti, soprattutto dei più indifesi, di cui Antonia prende sempre le parti, dimostrando, già nell’infanzia, quella propensione alla maternità, non solo fisica, ma soprattutto morale e spirituale, messa poi in atto, nel modo più concreto, presso la Casa degli sfrattati di Via dei Cinquecento.
Onorina Dino