Preghiera
ll 1932 è l’anno in cui Antonia Pozzi scrive il minor numero di poesie, ma, tra esse, si trovano quelle che più intensamente riflettono, accanto agli altri drammi di natura esistenziale, il dramma dell’assenza di Dio e, quindi, della sua ricerca, del suo bisogno. È dramma perché Antonia ha conosciuto Dio, in un tempo lontano, nella sua vita di bambina, e poi non lo ha più incontrato veramente, ma solo di riflesso, nelle immagini della natura - cielo, sole, vette alpine, spazi infiniti - oppure nel volto dell’amato: «[…] era Dio che parlava in te, che voleva salvarmi attraverso di te. […] Tu sei stato la parola di Dio in me, la promessa della mia redenzione» (Lettera ad A.M.Cervi, 11-15 febbraio 1934).
Le vicissitudini angosciose e angoscianti della vita (l’opposizione paterna al suo amore per il professore e l’ingiunzione di troncare ogni relazione con lui) tengono Antonia in uno stato d’ansia e di disperazione, che sfociano in vuoto interiore; vuoto che pesa, però, e stritola come una macina da mulino. In questo vuoto Antonia sente che le manca Dio: le manca come certezza, le manca come speranza, le manca come consolazione e sostegno in un cammino irto di ostacoli e precipizi, dove inciampare e cadere è l’unico esito possibile, perché «Non avere un Dio» significa brancolare nel buio, «acciecarsi nel nulla» (Grido). Da questa prostrazione, che è al tempo stesso tensione così tumultuosa e spasmodica da bloccare persino l’ispirazione poetica, sgorga la preghiera, che diventa poesia.
Dopo tanto dibattersi nel vuoto, finalmente Antonia recupera quel Dio lontano, ma vicino come il vento che passa «sopra l’erba dei prati» senza che essa sappia riconoscerlo e seguirlo (Prati). La preghiera, ora, nella consapevolezza dolorosa della propria miseria e della propria aridità – perché «tutta l’acqua mi fu bevuta o Dio» –, si fa invocazione e domanda: «Signore, per tutto il mio pianto,/ ridammi una stilla di te/ ch’io riviva». Antonia riconosce, ora, che il Signore è il Dio della vita e della resurrezione, è la sorgente stessa della poesia; «il tuo canto segreto» dice infatti la poetessa, non il “mio canto”: la poesia è «il canto segreto» di Dio nell’anima.
È interessante notare che Antonia, rivolgendosi a Dio col nome più familiare di «Signore» e col pronome, ancora più intimo, «tu», usa il verbo sentire – «tu lo senti » – e il verbo vedere – «tu lo vedi» – : Dio sente che lei non trova più le parole per scrivere ciò che Lui le detta dentro; Dio vede che gli occhi di lei non si levano più a contemplare il cielo – suo luogo e suo simbolo – e che non è più in grado di lasciarsi consolare dalla bellezza della natura – volto di Lui. È, perciò, un Dio molto vicino, quello a cui si rivolge Antonia, un Dio molto “umano”; certamente, in questo momento, è un Dio-padre, misericordioso e consolatore. Antonia non sembra chiedergli cose eccezionali, straordinarie, ma, in realtà, è davvero eccezionale la sua richiesta e presume una grande confidenza, ossia una grande fede: chiedere «una stilla di te» significa credere che Dio è tutto e che lei è tanto povera cosa che una «stilla» sola di Lui, della sua acqua divina ristoratrice – dono di grazia – le può bastare per ritrovare il contatto vivo con la natura e il dono della poesia: in una parola, le può bastare per rinascere. Con quella «stilla» lei potrà ancora essere la “portavoce” del «canto segreto» di Dio. Qualche mese più tardi Antonia sembra confermare questo, quando scrive a Tullio Gadenz, poeta e da pochi giorni amico: «Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato nel cuore» (Lettera, 11 gennaio 1933).
Onorina Dino