Sogno sul colle

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   Come è stato già rilevato per altre poesie, anche in questa domina il tema ascensionale; qui, però, l’ascensione non richiede alcuna fatica fisica perché è tutta interiore, sognata e tanto desiderata da risultare quasi già vissuta. Antonia, certo, è già stata sul colle, ha visitato i luoghi di S. Francesco ed è rimasta evidentemente affascinata dalla pace che vi ha respirato; dal silenzio che l’ha intrisa delle sue onde, permeato di preghiera serena, confidente, gioiosa; dai gesti quotidiani, semplici e umili, uguali, ma capaci di donare qualcosa di sé agli altri, anche alle creature più piccole, come le lavande e le rose, che un frate «disseta» - quasi fossero creature umane che l’arsura della vita sta facendo soffrire - rinnovando così la loro linfa; in una parola, ridonando loro pienezza di vita; ma qui il colle vissuto si fa simbolo e metafora e soltanto alla fine della lirica si configurerà nel suo significato ultimo.
   Tutta la lirica si snoda con un tono di lauda francescana per la semplicità delle immagini e del linguaggio, per il ritmo pacato e lento, proprio della preghiera e del canto salmodico, per gli elementi del creato, nominati in senso verticale, dall’alto verso il basso, dal cielo verso la terra: sole, cielo, nuvole, mare, edera, pervinche, lecci, lavande, rose, terra; e anche, qui come nel Cantico delle creature, la terra è “sorella madre”, nelle cui zolle fiorite Antonia Pozzi sogna di poter essere accolta come in un abbraccio, offrendole in dono, per ricambiarlo, i suoi fiori − «le mani stanche chiuse in croce» − quasi a consacrare l’abbraccio, il gesto vicendevole dell’accoglienza e del dono.
  Un’aura di straniamento, di sospensione dello spirito, di contemplazione pervade la poesia, ma in questa calma tutta esteriore, un bisogno preme nel fondo dell’anima, un’urgenza; ne è rivelatore il desiderativo «vorrei», presente in tutte le strofe e sempre in una posizione di forte rilievo e significanza: fine verso, inizio verso, verso a sé; quest’ultimo, poi, situato al centro della poesia, sembra rimarcarne, oltre l’andamento litanico dal tono quasi di supplica, il momento della svolta, quello che potrebbe assicurare la pace agognata: «bussare alla porta del convento». Eppure, questo, è solo il primo passo, il primo gradino, la prima tappa del cammino.
   La salita del colle inizia con uno sguardo del cuore che si allarga tra due infinità: una visibile, il cielo, l’altra invisibile, ma subito materializzata dal «volo delle nuvole lente» nella sua direzione, il mare. Tra queste due infinità spazio e tempo si dilatano, il silenzio si fa raccoglimento; lo sguardo si volge alla terra per cogliere pervinche; il passo si fa lento nel «rasentare le mura del convento»: là, sotto il manto dell’edera che ne riveste le antiche mura e lo protegge dal frastuono del mondo, il silenzio è più fitto, ma più vivo, più umano.
   Se il primo gradino è quello della «porta del convento», il secondo e definitivo è quello che introduce nella «cella»: qui avviene il passaggio dalla realtà fisica alla realtà metafisica, dal limite all’illimite, dalla pace sognata alla pace trovata.
   Come le nuvole che veleggiano verso il mare, Antonia Pozzi sembra percorrere la salita − il cammino della sua vita − per approdare là dove i limiti non esistono più, dove il tempo non è tempo, dove il luogo non è luogo; e nulla, meglio della salmodia intonata dai frati – divenuti fratelli nello spirito −, riuscirebbe forse a dire con maggiore efficacia e con più soave dolcezza, il respiro profondo della pace raggiunta.
  Tutta la lirica si muove in un’ariosità vestita di colori tenui: dal «pallore del sole» all’azzurro delle pervinche e delle lavande, al verde pacato dell’edera, al «lume delle prime stelle», fino al «tramonto dolcissimo» e ultimo che sfiorerà «i cespi delle lavande» e darà un’ ultima carezza alle sue «mani stanche/ chiuse in croce» ; ed è percorsa tutta da un silenzio che sembrerebbe irreale e che invece è realmente vissuto dalla poetessa; silenzio che si avverte non solo nel paesaggio che le parole evocano, ma, soprattutto, nei loro stessi suoni: basti sentire il suono della S che si rincorre di verso in verso, di strofe in strofe, con una intensità che non scema dalla prima all’ultima strofe, quasi ad avvolgere, non solo la poesia, ma la stessa Antonia , in una musica lieve che scorre, come da tastiera appena sfiorata, tra le «chiome d’argento» che ombreggiano il viale, e accompagna «il volo delle nuvole verso il mare» e il passaggio di Antonia dalla pace di un’ora alla pace “per sempre”.

                                                                                              

                                                                                                              Onorina Dino