Radici

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    Ascoltare il silenzio. E nel silenzio cogliere la vita: la vita profonda della propria anima e la vita che l’anima scopre intorno a sé, dalle sue origini più remote, anche se nascosta in un «sepolto segreto».
   È un silenzio che vive nel tempo, emerge dal tempo e dilaga nello spazio, colorandosi e trascolorandosi, col fluire delle ore e delle immagini, al ritmo delle piccole cose, che solo orecchi e occhi interiori possono percepire e seguire attimo dopo attimo.
    L’intensità della contemplazione, che trasfigura la visione esteriore, concreta, in visione interiore, nella quale le immagini, divenute appunto immagini dell’anima, sembrano scandite da colpi di gong, segnali di eventi invisibili, ma reali, più reali di quanto le cose, il paesaggio vero o immaginato, riescano a dire.
    Si avverte, fin dall’inizio della poesia, il profondo legame di Antonia Pozzi con la natura: legame che non sfocia nel panismo, quanto in una riflessione-meditazione sulla vita umana, sulla propria vita: ormai trascorsa, ancora in atto e, quindi, in divenire, come sogno e speranza.
    La lirica inizia con un’immagine sonoro-visiva fortemente drammatica, per quel predicato –«gronda» – posto in primo piano, rispetto al soggetto – «casa» – respinto nel verso successivo, dove, però, piuttosto che perdere intensità e valore, si carica di grande forza e senso emotivo, perché su di esso si è costretti a fermarsi dal punto fermo che chiude logicamente la frase. Così le prime due brevissime strofe, si configurano come il prologo di un dramma, che dice disfacimento e morte, con quella «neve disciolta» che «gronda» da e su tutta la casa, quasi a farla annegare; con quel verbo «gronda», così aspro e duramente sonoro, che crea il fragore di un crollo, il crollo della casa. Ma la casa resiste: chi sussulta e sembra crollare al suono cupo e sordo – «tonfo» – delle gocce, che cadono pesanti e lugubri è, invece, l’anima, da esse macerata. E in quel «gronda» e in quel «tonfo» c’è tutto il dolore di un mondo, il mondo vissuto, che non è più - «infanzia perduta», «vita sognata», «fiaba del tempo d’amore». Tutto, tutto “disciolto”, dissolto in un tonfo. È un “atto” di morte? No: è solamente il passato che si fa presente in un momento di vita della natura, che sembra morta. Dopo questo incipit è prossima la risurrezione; infatti al di là della morte, «vive un esiguo mondo/ di erba e di terra»: è il mondo delle «radici / profonde nel grembo di un monte/ a Primavera votate»; e soltanto lei, Antonia, sa, prima ancora che il “voto” si compia, di quali fiori risplenderà e profumerà quell’«esiguo mondo d’erba e di terra»; lei «sola» sa dove riapparirà la prima «tenera esistenza/ delle foglie»; dove in un attimo improvviso si svelerà il «sepolto segreto di origini». In questo svelamento misterioso Antonia vede anche la rivelazione del suo «sepolto segreto», il rifiorire delle sue radici, la tenera speranza di una vita nuova, il sogno di un amore ancora possibile, come i nuovi germogli che rivestiranno di luce la terra ora morta: oltre «i veli del sole e gli insicuri riflessi» della vita, oltre il mistero di tanti oscuri dolori e fallimenti, si leverà – «stelo/ di pallide certezze» – ma deciso ad affrontare nuovi destini, nonostante la sua precarietà di stelo.
    Allora l’anima trasalirà ancora: ma come i petali di un piccolo fiore delicato sfiorato dalla brezza portata dall’aurora, dopo una notte di “tonfi” e di disfacimento. Allora il suo «pezzo di zolla» diventerà fioritura primaverile, quando le radici, che alla Primavera si erano «votate», avranno adempiuto la loro promessa, il loro voto.

 

                                                                                                     Onorina Dino