Prati
Guardando o, meglio, leggendo le fotografie di Antonia, ci si deve disporre ad entrare con la mente, ma soprattutto con il cuore, nel dramma della sua vita, conclusasi così rapidamente, e pur così intensamente vissuta da lasciare col respiro sospeso chiunque si accosti ad essa, attraverso le immagini create con le parole e le immagini create con la macchina fotografica.
Nelle immagini fotografiche sembra che Antonia abbia raggiunto quella pacificazione dello spirito, cercata fin dalla prima adolescenza, anzi quasi fin dalla fanciullezza; infatti fin da allora il suo spirito è teso alla ricerca di spiegazioni e di svelamento dei misteri della vita e del mondo: scrive a 14 anni, in una pagina di diario: “Sono appena tornata dalla casa dei miei amici. Abbiamo ragionato a lungo intorno a cose grandi, troppo grandi per noi, e abbiamo detto del principio e della fine del mondo, dell’origine della materia; abbiamo vagato con la mente nello spazio costellato di pianeti, abbiamo discusso dell’aldilà, abbiamo finito col rimanere assorti in uno stesso pensiero… È strana l’impressione che provo io al pensare alla vastità della terra: spingo più che posso il mio sguardo al limite dell’orizzonte; mi dico:è più grande – rivedo il panorama goduto dalla Madonnina del Duomo:no, è più grande ancora – mi si riaffaccia la visione scintillante avuta sulle cime della Grignetta: no, no, è più vasta. E allora tento, tento raffigurarmi una distesa immensa, sconfinata, che s’incurva così, laggiù… E lo stesso provo pensando all’eternità: sempre, ripeto a me stessa, sempre…sempre… Mi scuoto con un brivido: sempre! parola terribile, terribile come mai!”
E in un’altra pagina: “Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola via, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita e non lascia che un senso spiacevole di vuoto.”
Scrive nel ’29, in una delle prime liriche: “…quand’ero nella casa/ della mia mamma, in mezzo alla pianura,/ avevo una finestra che guardava / sui prati; in fondo l’argine boscoso/ nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,/ c’era una striscia scura di colline./Io allora non avevo visto il mare/ che una sol volta, ma ne conservavo/ un’aspra nostalgia da innamorata./ Verso sera fissavo l’orizzonte;/ socchiudevo un po’ gli occhi ; accarezzavo/ i contorni e i colori tra le ciglia:/ e la striscia dei colli si spianava ,/ tremula, azzurra: a me pareva il mare/ e mi piaceva più del mare vero.”
Sentimento del tempo e sentimento dello spazio: lo sguardo di Antonia Pozzi si allarga già e si stende sul visibile e sull’invisibile: eternità e infinito non lasceranno più riposare la sua mente, il suo spirito, anzi daranno luogo a un’ansia di sconfinamento e di trascendimento dei limiti imposti dalla realtà, a un’inquietudine che diverrà sempre più acuta e sempre più incontenibile, col procedere delle vicende dolorose della sua vita e la spingerà alla ricerca di una sosta, di un porto, dove rifugiarsi, dove placarsi, proprio come la nave ferita della poesia “Il porto”, metafora di se stessa. Altre volte è il silenzio ad offrirle una tregua, il silenzio vasto dei monti, degli alpeggi, dove una voce si perde lontano, forse cantando anch’essa la propria solitudine, i propri sogni smarriti in un tempo che non torna più e in uno spazio che può contenere e ampliare la sua infinita nostalgia, come nella poesia “Echi”.
C’è un altro sguardo di Antonia Pozzi, quello che si leva a contemplare le altezze: alberi, monti, cielo, nuvole, stelle, sole: è lo sguardo che rivela “l’oppressa nostalgia della luce” (La voce) e in essa, ancora la tormentosa ricerca di pace. Con questo sguardo Antonia coglie la dimensione verticale della vita, quella cui costantemente aspira, come in un cammino ascensionale, sul quale trova , ad ogni tentativo di ascesa, ostacoli che diventano insormontabili, perché la vita è scoscesa come una parete dolomitica, perché la fede non l’assiste nel recuperare il suo credo di bambina, perché il suo pensiero si è creato un’idea del divino che non genera amore, quell’amore di cui sente tremendamente il bisogno e a cui è costretta a rinunciare per volontà altrui o perchè spinta dalla propria carità, che mette gli altri davanti ai suoi desideri, ai suoi sogni.
Il desiderio-bisogno di elevarsi al di sopra dei propri limiti, in una sfera oltreumana, trova nella montagna il simbolo più eloquente; per questo la montagna assume sempre connotazioni antropomorfiche. Scrive già in una poesia del 1929 – “Dolomiti”– “Non monti, anime di monti sono/ queste pallide guglie, irrigidite/ in volontà d’ascesa”; e ancora: “In basso la roccia dura piange”; in altra lirica le montagne sono “uno zampillo estatico che balzano dalla falda erbosa” quasi a volere staccarsi dalla terra per raggiungere il cielo, con il loro atteggiamento di rapimento contemplativo.
Dalla montagna , Antonia trae esempio per sé: “Anima, sii come la montagna/ che quando tutta la valle è un grande lago di viola/…lei sola, in alto, si tende/ ad un muto colloquio col sole.
La volontà di Antonia è sempre tesa in questo sforzo di ascesa morale e spirituale, svelata anche dalla frequenza del verbo salire in molte liriche: “Saliremo sugli altipiani/ dove vola la rondine dell’alba…/ Saliremo oltre i cembri, oltre i pini, / dove si è soli sotto il cielo nudo,/ soli – se gridi nel silenzio il vento/ il nostro nome/ detto da Dio/ e sia l’ora di andare/.
Ma chi è questo Dio, alla cui voce bisogna rispondere, prontamente? Chi è Dio per Antonia Pozzi?
Da una sua lettera all’amico poeta Tullio Gadenz pare che sia un infinito astratto e lontano, che “non si può chiamare né pregare”, ma anche tanto concreto che “lo si può vivere nel profondo” , un Dio costruito su una fede idealistica e panteistica ; ma un Dio così non può bastare ad Antonia e anche quando sembra negarlo, in realtà lo cerca, in maniera quasi spasmodica, come scrive nella poesia “Risveglio notturno”: “ Riemersa da chissà che ombre,/ a pena ricuperi il senso/ del tuo peso/ del tuo calore/ e la notte non ha,/ per la tua fatica,/ se non questo scroscio pazzo/ di pioggia nera/ e l’urlo del vento ai vetri./ Dov’era Dio? “
E mentre scrive della sua “inconscia vita senza Dio” (Vita), della sua anima che “ignora la preghiera,/ anche quella dei morti” (Anniversario), non può tacere l’intuizione che spesso si fa strada in lei e che le fa toccare in modo sensibile i limiti della ragione,come nella poesia “ Prati”
E giunge anche il momento in cui la pena è così grande che prorompe in una invocazione disperata:” – aiuto – per la miseria/ che non ha fine” (Grido). Sono questi i momenti in cui l’unico che possa ascoltare il suo dolore e accoglierlo e pacificarlo è proprio quel Dio, sentito così lontano, che ritorna improvvisamente, spontaneamente, vicino: a questo Dio, che sa quanto errare e quanto cercare, quanto soffrire e quanto morire ella ha dovuto attraversare ogni giorno della sua vita, Antonia può rivolgere la sua preghiera: “Signore, per tutto il mio pianto,/ ridammi una stilla di te, / ch’io riviva.” (Preghiera).
Onorina Dino