Salire

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Salire? Sì, salire. Il titolo è già un indizio e un progetto, una promessa e un impegno. Salire? Sì: movimento, dinamicità, scomodità, rischio; scrollarsi la zavorra e dire al proprio corpo: abbandona la tua materialità o, meglio, osa tutta la tua materialità, “tira su le tue quattr’ossa”, come direbbe Ungaretti, metti un’ala, due ali, sollevati, decolla, librati, slanciati nell’avventura dello spazio e dello spirito, diventa ciò che sei. Intelligenza, sensibilità, emotività, sogni, aspirazioni: spremi il tuo “succo” di persona, sii “una”.
   Salire? Sì, anche se salire costa, perché è fatica e perché ogni salita è un viaggio e non sempre si sa dove esso porti.
   Salire, dunque. Meta? Gli altipiani. Ma è un viaggio col corpo, del corpo? È una fatica solo fisica? E gli altipiani, sono soltanto quelli geologici? O non sono gli alti piani della vita, gli alti piani del desiderio, meglio, della volontà di colmare ad ogni passo una distanza, di superare ogni giorno un limite, di guadagnare a ogni esperienza un pezzo di consapevolezza, di aprire ogni giorno nuovi spazi alla bellezza e spalancare ogni giorno occhi nuovi per contemplarla e cuore nuovo per amarla e viverla in sé, come forza di sussistenza, come sostanza della propria esistenza?
   Salire sugli altipiani significa poter vedere, spalancando occhi, mente e cuore, unirsi al volo della rondine, quella che non costruisce la sua casa tra le case degli uomini, sotto i loro tetti, ma sulle pareti a strapiombo delle “case immense dei monti”; soltanto lei ha le “ali d’oro” e può dissetarsi alle acque limpide e fresche delle sorgenti, può contemplare il loro sorgere e il loro fluire, può ascoltare il loro canto e al loro canto unirsi, può rispecchiare la sua bellezza nella loro bellezza.
   Salire sugli altipiani significa anche mettersi al seguito delle nubi leggere, in un mare di luce irradiata dalla neve, imbarcarsi su di esse, velieri che solcano placidi il mare del cielo, e prendere il largo e navigare in alto, dimenticandosi delle “quattr’ossa” che dolgono per i mali della vita o per qualche piccola gioia che sulla terra può apparire così grande da risultare tremenda, o che bramano un po’ di quiete pigra e sonnacchiosa: desiderio spesso inconsapevole ma sempre incombente sulla quotidiana esperienza mortale.
   Salire sugli altipiani: significa lasciare l’ombra e la frescura dei “cembri e dei pini”, esporsi al sole rovente, lasciarsi avvolgere e penetrare dalla solitudine più vasta, nel cielo che non è vuoto ma colmo di azzurro e di sole, nella perfetta coscienza del sé liberato e vigile, perciò capace di sentire il proprio silenzio e di ascoltare il silenzio dell’universo. E là, nel vento che travolge pensieri e malinconie, le mille piccole cose che scalpellano, le miserie che corrodono (A. Pozzi, Diari) avvertire il grande richiamo all’estrema liberazione, alla meta ultima del lungo viaggio ascensionale, a essere quella creatura “una” cui tanto ha aspirato. Sentire il “nome” è il segno del riconoscimento di sé, dell’identità, dell’unità conquistata. E se il nome è “detto da Dio”, non c’è riconoscimento più grande, non c’è invito che possa essere eluso: è “l’ora di andare”. Che cosa è dunque la vita per Antonia Pozzi? Che cosa è la morte? Forse anche per lei è una Pasqua.


                                                                                   Onorina Dino