Portofino
Si profila qualcosa d’inatteso in questa lirica, fin dall’apertura, dove forte si stampa il contrasto fra i «mandorli vivi» e le «tombe dei bambini»: con un percorso breve, ma intenso che si presenta in una veste descrittiva di paesaggio ligure fatto di rocce e di mare, Antonia Pozzi ci conduce da una realtà esterna, visibile, ad una realtà invisibile, ma percepibile attraverso una lettura che esca dagli schemi descrittivi.
Ma procediamo con ordine, seguendo i versi e le strofe, così come sono disposti e con le immagini che ci propongono, perché non è facile, come può sembrare, addentrarsi tra immagini e parole e ricavarne un senso “altro” da quello apparente.
La prima immagine, appunto quella dei «mandorli vivi» in antitesi con quella delle «piccole tombe» dei bambini, ci pone di fronte al mistero della vita e della morte e ci impone di sottolineare tre attributi: «lontani», «vivi», «infisse»; «lontani», riferito ai bambini e collocato in una posizione di grande rilievo – è infatti la parola che dà inizio alla lirica – ci mette subito sull’avviso: un abisso separa i bambini dai mandorli, l’abisso della morte – che è cessazione di vita e di tempo – mentre i mandorli continuano a splendere di vita e di colori, vivi e vivaci come l’aggettivo «vivi» suggerisce, con i loro petali bianco-rosa come la carnagione di un bambino; l’aggettivo «infisse», poi, fa sentire tutta l’immobilità e la durabilità della morte: la morte è “per sempre”: così il contrasto vita-morte si accresce e si acuisce, caricandosi di questo nuovo senso. Antonia, ancora sulla soglia dei quattordici anni, parlando del tempo e dell’eternità, aveva scritto nel suo diario: «[…] sempre, ripeto a me stessa; sempre…sempre… […] sempre! Parola terribile, terribile come mai!» (7 febbraio 1926).
Alle tombe «infisse agli scogli» si aggiunge la «vertigine» prodotta dalle alghe: esse stringono la roccia nello strenuo tentativo di farla sprofondare, di risucchiarla, d’accordo con le onde, che la percuotono nel «cavo cuore selvaggio»: che ne sa, infatti, la roccia delle tombe dei bambini, che, pure, sono infisse proprio nella sua pietra? Per questo, forse, il suo cuore è «cavo [e] selvaggio»: vuoto e senza amore.
Ed è qui, dopo questo incipit duro e tragico, che avviene una sorta di metamorfosi, della roccia, certamente, ma, prima ancora, una metamorfosi che avviene nel pensiero della poetessa; anzi, più che nel pensiero, nella sfera più intima della sua sensibilità, ossia nella sua religiosità, così apparentemente assente e, invece, così presente e viva da affiorare, all’improvviso, nelle sue immagini e nelle sue parole: la penisola-roccia scioglie la sua durezza selvaggia – «disfà i suoi nodi di terra» – e si trasforma in una nave cui fanno da vele le sue stesse «oscure foreste»; e in questa sua nuova identità scivola leggera, lasciandosi cullare dal moto lieve, incessante, del mare; e ad ogni onda è un nuovo orizzonte che si profila – più lontano, più vicino – in una « infinita altalena ». Non è, forse, un’altalena la vita? E l’altalena non è un gioco molto amato dai bambini? La loro altalena-vita è approdata per sempre su quella roccia-nave- altalena che ora continua a dondolare e a cullarli.
Un intreccio simbolico intensissimo si nasconde negli ultimi tre versi, dentro un notturno lunare: la penisola nave assume ora i connotati di madre che, in atteggiamento di umile accettazione – «china» – offre i suoi bambini – «i suoi lievi sepolcri» – ai «bracci di una gran croce lunare». Ed ecco l’immagine della “Pietà”, di Maria che, «china» nell’obbediente dolore, offre il Figlio al Padre e agli uomini: dalla croce del Figlio emana la luce che illumina il cammino degli uomini, la loro «infinita altalena»; così la penisola-nave-madre conduce i suoi piccoli figli all’abbraccio del cuore di Cristo.
Il dolore cessa per cedere il posto all’amore: tenerissimo amore di madre, che affida, «offrendo», l’oggetto del proprio amore a un amore più grande.
Come non pensare alla manzoniana “madre di Cecilia” ?
Onorina Dino