Sera a settembre
Lo sguardo di Antonia è sempre uno sguardo di intenzione, di partecipazione affettuosa, che sarebbe più corretto definire com-passione. La sua umanità è sensibile a ogni evento, sia pur piccolo, che si tinge di sofferenza e dolore; e non importa che l’oggetto della compassione faccia parte della categoria delle persone care o delle persone conosciute, cui la stringe una sorta di “parentela paesana”, come la gente di Pasturo, ormai sua patria elettiva; qui, in questa lirica, la compassione è tutta rivolta verso gente forestiera, guardata male quasi sempre e ovunque dagli abitanti autoctoni: una famiglia di zingari, arrivati a Pasturo chissà da dove. Su di loro si china la tenerezza di Antonia. Ma prima che si focalizzi su di essi, «accampati sulle strade», il suo sguardo si è allargato su un panorama molto più ampio, nel quale si allineano e si intrecciano monti e valle, animali, carri e bambini, «rade case illuminate»; e tutto è avvolto da un brivido di freddo, perché ai monti c’è «aria di neve».
Un fatto abituale di transumanza autunnale, che vede armenti e greggi lasciare i monti e scendere al piano, diviene creazione poetica, perché la scena, contemplata nei suoi particolari, è penetrata nell’anima della poetessa, avvezza, sì, a una vita agiata, ma non per questo indifferente alla vita degli altri, soprattutto quando la scopre ben diversa dalla sua, perché oppressa dalla fatica e dalla povertà, ma anche perché genuina e libera, come quella dei bambini che «s’aggrappano ai carri», per godere del loro dondolìo, del loro odore di fieno, della compagnia dei grandi, con i quali sentirsi grandi anch’essi. E quanta energia e scioltezza e vivacità in quell’aggrapparsi: è una conquista, una vittoria.
Questa dei bambini è l’unica immagine piena di vita e di gioia presente nella poesia; essa fa intuire anche le loro voci fresche, squillanti, che Antonia tace, perché più forte risuonano dentro di lei le voci degli zingari: non perché più alte o più potenti, ma perché fievoli, stremate, fioche come l’ombra da cui escono cantilenando nenie, forse a consolare la loro condizione di marginalità, di estraneità, di solitudine. Sembra quasi che l’«aria di neve» che viene dai monti, e che fa supporre un cielo sbiadito e cinerino, accenda nel cuore della poetessa un fuoco d’amore fraterno e il desiderio di alleviare la pena di chi soffre, in questo caso gli zingari, che non hanno altra casa se non la strada e altro tetto se non il cielo, che, però, minaccia neve. Conferma di questa volontà, di questa tenerezza, di questa intima sofferenza, è il pronome «me», che assume grande pregnanza, non solo per la sua posizione forte – dopo l’inciso «-allora-» e all’inizio del secondo emistichio del verso –, ma anche, e si dovrebbe dire innanzi tutto, per quella «a» posta davanti al pronome, che dovrebbe indicare il moto delle nenie dal basso verso l’alto e che acquista, invece, un valore fortemente affettivo, di dativo di interesse, come a dire: per me, proprio per me, a trafiggermi l’anima.
La lirica si apre e si chiude con due immagini malinconiche e tristi: anche i «campani» danno malinconia, perché avvertono che l’inverno è vicino e che l’erba fresca e verdeggiante dei pascoli alpini sarà per lunghi mesi un dolce - amaro ricordo, mentre si mastica il «magro ultimo fieno».
Tra le due strofe, in quella centrale, accanto all’immagine gioiosa dei bambini, un’altra se ne apre e ci fa capire l’inciso «- allora -» e i tre puntini di sospensione alla fine della poesia; è l’immagine delle «rade, calde case illuminate», dove gli attributi «rade, calde», posti fianco a fianco, mettono subito in rilievo il contrasto fra due condizioni di vita: pochi possono godere del caldo tepore di una casa e della luce che neutralizza il buio della sera di settembre, dando non solo sicurezza e conforto, ma anche «trasparenza» e quindi visibilità a chi vi abita – una sorta di affermazione sociale –. È a questo punto, «- allora -», che Antonia scopre l’ombra, il buio: là vivono gli zingari «accampati sulle strade», senza tepore, senza luce, senza visibilità sociale, se non quella della loro indigenza, che è, quasi come contrappeso, libertà: libertà nello spazio, libertà dalle convenzioni sociali, libertà di cantare ciò che sono con le loro nenie malinconiche, che raggiungono le case illuminate, anche quella di Antonia…
Onorina Dino