IL TRENO DELLA MEMORIA
In tutta Europa, in Italia e non solo IL 27 Gennaio sono state organizzate le più svariate iniziative per ricordare il dramma dell’olocausto.
Una particolarmente interessante alla quale ho avuto la fortuna di partecipare è stata quella organizzata dai sindacati Cgil-Cisl in collaborazione con la Regione Lombardia: “IL TRENO DELLA MEMORIA”. Siamo partiti in più di 600 tra studenti, lavoratori e pensionati il giorno 23 Gennaio dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano, non un binario a caso ma proprio lo stesso numero dal quale partivano i deportati italiani, anche se all’epoca si trovava in una parte separata della stazione, lontano dalla vista dei milanesi. Nelle venti ore di viaggio successive abbiamo ripercorso il più fedelmente possibile il tragitto che percorrevano ebrei, omosessuali e prigionieri politici italiani alla volta dei campi di concentramento e di sterminio nazisti in Polonia. Abbiamo attraversato Austria e Repubblica Ceca prima di varcare il confine con la Polonia dove il paesaggio era a dir poco desolante: immense pianure ricoperte di neve, qualche albero qua e là, poche case di recente costruzione e stazioni periferiche semi abbandonate, il tutto unito a un freddo estremo: 25 gradi sotto lo zero.
Ci sembrava quasi impossibile pensare che ormai sessant’anni fa qualcuno fosse riuscito a fare il nostro stesso viaggio, in dieci o quindici giorni e non in 20 ore, con quel freddo, senza cibo nè acqua e per di più ammassati in vagoni merci. Eppure così è stato per migliaia di italiani che per qualsiasi motivo si sono opposti all’ideologia nazista, come gli scioperanti lecchesi del 6 Marzo, ma soprattutto per gli appartenenti alla religione ebraica che furono prima costretti con le leggi razziali fasciste del ‘38 a vivere nei ghetti, tra i quali il più noto è quello di Roma, e poi man mano con un sistema molto preciso e ben organizzato deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, molti dei quali si trovavano nella Polonia occupata come Auschwitz e Birkenau che abbiamo poi visitato il giorno dopo il nostro arrivo a Cracovia.
La visita a questi campi è stata senza dubbio la parte più commovente e più intensa di tutto il viaggio. Auschwitz è stato ormai trasformato in un grande museo nel quale sono conservati i resti di ciò che è stato trovato al momento della liberazione russa dei campi. Qui abbiamo potuto vedere con i nostri occhi le montagne di occhiali, scarpe, capelli e vestiti tolti ai deportati al momento del loro arrivo nel campo e che i nazisti hanno tentato di distruggere per non lasciare prova di ciò che avevano fatto. Ad Auschwitz il deportato non era più un uomo ma diveniva una risorsa, un pezzo di materia da sfruttare al massimo. Oltre agli oggetti che venivano loro tolti e mandati in Germania, al duro lavoro che dovevano fare, i loro capelli venivano tagliati per fare materassi e tessuti e la cenere che derivava dalla cremazione dei cadaveri diveniva concime per le campagne. Nel campo abbiamo poi visitato le prigioni nei quali venivano mandati i deportati politici in isolamento prima di essere uccisi, nelle quali è morto tra gli altri anche padre Kolbe.
Per quanto però Auschwitz possa essere triste e per quanto orrore trasmettano le immagini e le foto appese nelle varie sale, la visita al vicinissimo campo di Birkenau è stata sicuramente la più sconvolgente. Mentre il primo campo è nato per lo più come campo di lavoro, vi era sì un forno crematorio, ma la maggior parte delle persone venivano messe ai lavori forzati, Birkenau è stato costruito per quella che i nazisti chiamarono la “soluzione finale della questione ebraica” ovvero la distruzione della “razza ebraica”. Il campo si estende a perdita d’occhio ed è composto da migliaia di baracche e tre forni crematori, nei momenti di massima attività poteva contenere quasi 100.000 persone. Un binario entra direttamente nel campo: se il treno lo percorreva fino in fondo, alle camere a gas, tutti i prigionieri venivano uccisi immediatamente, mentre se si fermava al centro vi era la selezione: gli uomini e le donne che potevano lavorare venivano lasciati vivi, anziani e bambini portati con il pretesto di una doccia alle camere a gas dove venivano uccisi.
È praticamente impossibile descrivere il freddo che abbiamo sofferto, anche se eravamo ben vestiti e preparati nella visita al campo, ed ancora di più pensare a come delle persone potessero vivere in quelle condizioni: costrette a duri lavori, con poco cibo e a temperature invivibili.
Le parole di Primo Levi (italiano deportato ad Auschwitz) tratte dall’opera “Se questo è un uomo”, descrivono secondo me come si vivesse in quelle condizioni, sempre che quella possa essere chiamata vita:
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Io credo che, nonostante il freddo e le dure ore di treno, sia stata quella di questo viaggio un’esperienza molto bella. Non bella in senso estetico per quello che abbiamo visto, ma proprio perché è riuscita appieno nel suo scopo: tenere viva in noi la memoria di questa triste pagina della storia. In molti hanno cercato di farcela dimenticare o di sminuirla; è importante invece, proprio adesso che i testimoni diretti di questa tragedia ormai sono sempre meno, cercare di tenere vivo il ricordo di ciò che è accaduto, far conoscere specialmente ai giovani ciò che degli uomini hanno saputo fare ad altri uomini. Non tanto perché questo diventi un peso, una catena da portarci appresso per l’eternità, ma perché dobbiamo imparare dagli errori del passato, farne tesoro. Non è infatti così scontato che qualcosa del genere non accada mai più: in fondo il tutto non è nato da pazzi ma da persone come noi, dal non accettare il diverso, dal razzismo. I tedeschi e gli italiani vedevano i loro vicini, magari anche i loro amici, presi e portati alla morte, ma non facevano nulla per opporsi, accettavano ciò che veniva loro definito dal regime come “giusto”. E anche oggi, se ci guardiamo bene attorno, la base sulla quale è stato costruito quello sterminio c’è ancora, non sempre sappiamo accettare il diverso e il razzismo vive ancora.
Fabio Merlo
IL GRINZONE n.30