PASSAGGIO IN INDIA


India del Nord, estate 2007.

Antimalarica, sacco lenzuolo, studio di cartine, di libri, prediche dei genitori e di amici increduli che mal condividono un’esperienza simile, dicono “troppi i pericoli, troppa la distanza, azzardata la formula di quattro ragazze “fai da te” con cartina alla mano, zaino sulle spalle, spirito di avventura o piuttosto, per i più, di sventura”.

Se poi capita di parlare con qualcuno di mete turistiche, una delle più sconsigliate è proprio l’India; ne senti di tutte e di più: malattie infettive, mancanza di igiene, alberghi come baracche, cibo avariato che provoca terremoti deflagranti nello stomaco, miseria e povertà come in pochi luoghi al mondo, caldo soffocante con un’umidità spesso superiore al 90%.
Nonostante questo, partiamo. Del resto l’avventura è un impeccabile antidoto contro le fobie della società, misurarsi con le difficoltà serve a tenere sveglia la coscienza ed il cervello, confrontarsi con culture diverse aiuta ad aprire la mente, a vedere le cose da un altro punto di vista.
Viaggiare completa, cercare è il buon inizio per trovare.

 


Il viaggio è stato un macinare chilometri su chilometri, all’incirca cinquemila, attraverso quattro Regioni (Punjab, Rajastan, Uttar Pradesh e Madhya Pradesh) in un solo mese senza fermarci mai.

Delhi, prima meta, la capitale: non una città, ma un video game.
Il traffico impazzito di tuk tuk, risciò, macchine sgarrupate che sembrano uscire da un cimitero di rottamaglia, mezzi di trasporto irriconoscibili, ibridi di camioncini e trattori, mucche per strada, visi con rara espressività, barbe incolte e colorate di rosso hennè, tutto bizzarro ed insolito, avvolto in un’atmosfera che hai soltanto immaginato da casa.
L’aria, una campana di smog umido, odori malsani e una concentrazione di esseri umani impressionante; mai visto così tanto di tutto insieme, troppo caldo, troppo umido, troppi odoracci, troppe persone, troppa povertà nelle strade, un eccesso, un senso di claustrofobia.

I nostri sensi si liberano procedendo per la Terra dei Sikh, la fiera ed orgogliosa casta dei guerrieri con uno dei Templi più suggestivi che abbia mai visto, il Tempio d’Oro di Amritsar circondato da acque cristalline e immerso in un’atmosfera di quiete e misticismo che mai ho provato altrove.

Giungiamo al confine con il Pakistan dove assistiamo ad una parata militare in pompa magna che si svolge quotidianamente per celebrare la faticosa pace raggiunta tra indiani e pakistani.

Scendiamo a Bikaner, dove si trova uno stravagante tempio di culto dei topi - per noi occidentali alquanto incomprensibile ma ricordiamo che la religione induista ha come credo la reincarnazione. Camminare a piedi scalzi all’interno del tempio è stata sicuramente una delle esperienze più raccapriccianti mai provate, circondata da migliaia di piccoli roditori grigi che squittivano coi loro piccoli denti vicino ai nostri talloni.

Poi è stata la volta della bellissima roccaforte di Jaisalmer nel cuore del deserto, la cosiddetta città d’oro, i cui edifici color sabbia rubano al tramonto i bagliori del sole e li fanno propri. Ci siamo addentrate nel deserto del Thar a dorso di cammello e proprio la notte di San Lorenzo una stella cadente con una coda lunghissima ha trapassato la notte lasciandoci un ricordo speciale.

Jodhpur, la tappa successiva, la città blu dove sembra di camminare nel cielo, le case dipinte d’azzurro, colore che in origine distingueva la casta dei Bramini; Puskar, la città hyppie sulle rive del lago sacro; Udaipur, la Venezia d’Oriente con la sua architettura tutta ad archi e volte ricche di merletti e cupole; Jaipur, la capitale del Rajastan, un labirinto di bazar che ci ha stupite con lo sfarzoso e lussuoso palazzo del Marajà, testimonianza della ricchissima cultura e architettura Moghul; l’ascesa al Forte di Ambert a dorso d’elefante è stata un’altra esotica esperienza.

Agra e il suo Taj Mahal, commovente come le intenzioni d’amore di chi l’ha fatto erigere, un colpo al cuore, una perfezione da lacrime, un’emozione che non puoi più scordare; FatehpurSikri, la città fantasma abbandonata ed arroccata in una nuvola fuori dal tempo; Khajuraho con i suoi templi unici al mondo, il Kamasutra scolpito nel tempo e nell’arenaria color oro.

Arriviamo nella mitica Varanasi, la vecchia Benares, la città più sacra di tutta l’India con i suoi vicoli labirintici e il suo “Ganga” (così lo chiamano gli indiani, noi lo conosciamo come Gange) color caffelatte, sulle cui rive si svolge e ti sconvolge ogni rituale con le celebrazioni alla vita in tutte le sue manifestazioni (nascite, compleanni, matrimoni…) sino alla morte, consumata quest’ultima su pile di legno che bruciano lungo il fiume insieme ad uno scombussolamento di emozioni devastanti.

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Ecco l’India con alcune parole. Ma ce ne sono altre.
Se potessero scorrere come le foto della mia Nikon sarebbero parole non solo dai colori afosi e spenti delle periferie di città, ma tinteggiate dai colori intensi delle spezie profumate, il cu
rry, lo zafferano, il peperoncino; dai colori sgargianti dei sarii delle donne che volteggiano nelle strade come farfalle allegre, oppure dal colore fucsia brillante dei fiori delle offerte agli Dei, ad ogni angolo di strada, lungo il flusso eterno del Gange, che tutto prende e tutti attira in un vortice di fede, riti, abluzioni e reincarnazioni.

Tante volte in questo viaggio ho raccolto il mio cuore da terra, ogni volta che il mio sguardo ha incontrato gli occhi grandi e sperduti di un bambino magro e solo sulla terra battuta delle strade polverose di città.
Se mi fossi fermata a dare una carezza a quel bimbo che, con quegli occhi neri e liquidi riempiva tutta la scena, non avrei più potuto continuare il viaggio.


Fingi di non aver tempo per straziarti dal dolore, ma ti strazi e questa è l’India dura, l’India che ti rimane addosso quando torni, come un marchio che non può più andare via, come l’Urlo di Munch che coi suoi decibel senza voce ti strazia più di ogni assordante rumore, ti stordisce l’anima, ed è per sempre.

                                                                                                                                                                                                  Nicoletta Orlandi

 

IL GRINZONE n. 21