LA PASSIONE PER L'ALLEVAMENTO CONTINUA
A Pasturo molti lo ricordano come “San Giuseppe” perché nelle varie edizioni del presepe vivente era proprio Francesco ad impersonare tale figura. “Forse perché avevo la barba, quando ci siamo trovati ed è stato proposto di organizzare il presepe durante la Messa di mezzanotte, mi hanno tutti indicato come quello che meglio poteva rappresentare San Giuseppe”. C’era ancora don Tullio in quegli anni ma la tradizione è proseguita anche con i parroci successivi, da don Gaudenzio a don Leone a don Antonio. A fare la Madonna era stata invece indicata sua cognata…
“Sono stato io a dare alcune indicazioni su come fare, portando anche i pastori con le pecore e gli agnelli, perché quando ero a militare in un piccolo paese del Trentino avevo visto una rappresentazione che mi era molto piaciuta”.
Arrigoni Francesco, per tutti Céco, è nato a Pasturo il 23 aprile 1944, terzo di quattro figli: Riccardo del 1935 (mancato nel 2006), Antonio (Tòni) del 1938 e Rino del 1949, purtroppo morto nel 2009. Il padre Domenico del 1902 era della famiglia dei Cascìn, mentre la madre proveniva dalla famiglia “Ragn”, Orlandi Arrigoni Maria. Una famiglia come molte altre attorno alla metà del secolo scorso, erano “bergamini”, avevano le mucche e gestivano diversi prati soprattutto nella zona di Nava, alla Pòsa e a Piazzo. D’inverno il papà con la maggior parte del bestiame faceva la “transumanza” e si trasferiva nella “bassa”, nel milanese, a Bernate Ticino e poi ad Induno Olona. I figli in età scolare rimanevano qui con la mamma mentre gli altri seguivano il papà.
Francesco frequenta l’asilo a Pasturo (“quando si riusciva ad andare… Ricordo suor Apollonia che era molto severa”) e le elementari col classico schema di quegli anni: le prime tre classi a Pasturo (Maestra Licia Mazzoleni), quarta a Baiedo (maestra Maria Valsecchi Ticozzi) e quinta a Pasturo “con la maestra Bambina; era molto brava anche se severa; una volta sola mi ha dato una sberla perché avevo osato risponderle. Ci vorrebbero però ancora maestre così, andrebbero molto bene per l’educazione dei ragazzi”.
Vivevano a Nava, per cui ogni giorno si scendeva per andare a scuola e si risaliva la sera: “In quegli anni Nava era come un paese, era abitato da molte famiglie per cui quando c’era la scuola eravamo oltre venti ragazzi a spostarci… Non c’era lo scuolabus… Nei mesi invernali si partiva alle sette col buio e si tornava col sole già tramontato. Io ero molto amico del Duilio che aveva la mia età, poi c’erano quelli più grandi che ‘tiravano’ il gruppo. Allora erano il Nando (della Poledrìna, del 1941) e il Luigi Arrigoni del 1940. Con l’arrivo della primavera ci divertivamo molto: un paio di zoccoli e pantaloni corti (così se si cadeva ci si faceva male alle ginocchia ma non si rompevano i pantaloni) mentre si scendeva si giocava a rincorrersi, qualcuno faceva la lepre e qualcuno il cane. A mezzogiorno mangiavamo un panino o la polenta col taleggio che avevamo nella cartella e poi ancora a scuola perché allora si andava anche di pomeriggio”. C’erano spesso le lotte coi “pasturei” da parte dei “baieroi”, con tanto di filastrocca che si lanciavano reciprocamente.
Finite le elementari Cèco inizia a lavorare coi suoi (“Per la verità ci lavoravo anche prima”) e d’inverno scende anche lui col papà a Bernatee poi a Induno Olona fino al 1958. Quando poi la sua famiglia non fa più la transumanza, va a lavorare come “famèi” nell’azienda dello zio Arrigoni Antonio (Tonéla) a Boffalora da ottobre a maggio (“Per mungere dovevo alzarmi alle tre perché alle sei passavano a prendere il latte e bisognava aver finito”) mentre d’estate sale con loro sui pascoli di Biandino.
Dopo alcuni anni Cèco riprende l’attività col papà e il fratello Toni, mentre Riccardo aveva iniziato a lavorare come operaio e anche Rino presso la Cademartori.
Nel frattempo, nel 1958, la famiglia aveva acquistato una casa in paese a Baiedo (la cà dei gàtt) anche se di fatto vivevano ancora prevalentemente sui monti, in particolare a Piazzo dove ancora passa tutto il periodo estivo con le mucche…
Riceve la famosa cartolina per il servizio militare nel 1965, come alpino; prima a Mondovì per il CAR e poi a Vipiteno: “Sono partito a gennaio ed ho avuto la prima licenza a dicembre, dopo undici mesi. Ho fatto oltre cento giorni di guardia attiva alla ferrovia e alle linee elettriche, in quegli anni prese di mira in Alto Adige. Comunque ricordo la naia come un periodo positivo e penso che potrebbe essere utile anche oggi invece l’hanno abolita”.
Nell’aprile del 1968, dopo essere andato al cinema a Pasturo con l’amico Duilio, decidono di andare a farsi una pizza a Barzio assieme a Valentino Castelletti, che aveva la macchina, e Orlandi Antonio. Appena raggiunta la provinciale, alle prime curve prima della MAURI, l’auto sbanda contro la roccia e si capovolge: purtroppo Duilio e Antonio muoiono sul colpo mentre Francesco non si fa quasi nulla (“Ero sul sedile posteriore”) e Valentino viene ricoverato con diverse fratture. E’ stato un momento molto difficile per la perdita dei due amici, soprattutto di Duilio che per Francesco era come un fratello.
Continua l’attività agricola e nel 1974 acquista, assieme ai fratelli Antonio e Rino, dal Gianni Arrigoni (Simòno) la casa dove abita attualmente in Via per Introbio, casa che poi diviene solo sua quando ciascuno dei fratelli sceglie un proprio percorso.
Si sposa nel 1977 con Ticozzi Antonella, del 1958, figlia di Giuseppe (Botolìn, del 1922 e morto nel 2000) e di Orlandi Francesca (Carlucét) che ora ha 93 anni. “Ci siamo conosciuti mentre facevamo il fieno perché le nostre famiglie avevano dei prati confinanti… Oggi ci si conosce in discoteca ma per noi le piste da ballo erano i prati…”.
Nascono le due figlie, Laura e Cristina, nel 1978 e Lorenzo nel 1993. La famiglia continua l’attività e anche le figlie collaborano. Cristina si sposa con Locatelli Martino, anche lui agricoltore e nel 2011 nasce Samuele che purtroppo vive solo fino ai tre anni. E’ un duro colpo per i genitori ma anche per tutta la famiglia.
Attualmente l’azienda agricola di Francesco si è unificata con quella di Martino e Cristina: le mucche sono a Ballabio dove c’è anche la produzione di formaggi che vengono venduti prevalentemente in uno spaccio vicino all’agriturismo gestito dalla famiglia del fratello di Martino, Andrea (che pure ha sposato una pasturese, Beatrice). Oltre al distributore di latte, da qualche anno Cristina si è perfezionata nella produzione artigianale di gelato, anch’esso molto apprezzato dai clienti.
A Pasturo vengono invece allevati i vitelli e le manze che d’estate salgono in alpeggio a Piazzo. Anche Lorenzo, che pure dopo e Medie aveva frequentato la scuola edile, ha preferito poi unirsi all’attività del papà ed ora è titolare dell’azienda con la sorella e il cognato.
Nel 2015 nasce Marco, figlio di Laura, che quest’anno frequenta la prima elementare a Pasturo.
C’è un po’ di malinconia nelle parole di Francesco quando gli chiedo come trascorre le giornate adesso. Avrebbe voglia ancora di fare, ne vede le necessità ma deve curarsi per una forma allergica che l’ha colpito e altri problemi medici che lo costringono ogni anno ad un periodo di ricovero al “Frisia” di Casatenovo per ristabilirsi.
Anche l’estate a Piazzo non è più come una volta: “Negli ultimi anni la famiglia del Marco Tricella ha ravvivato l’ambiente. Devo dire che abbiamo ottimi rapporti e che ci sentiamo meno isolati, anche se adesso siamo una delle poche famiglie che svolgono questa attività mentre una volta eravamo un paese intero. Le persone erano più affabili e ci si aiutava reciprocamente. Se uno finiva di fare il fieno e il vicino ne aveva ancora si andava dare una mano. Mi sembra che anche l’ambiente ne soffra: con gli agricoltori i nostri monti sembrano un giardino ma dove non ci sono più diventano solo bosco. Adesso ci sono più mezzi meccanici ma meno braccia. Ma i mezzi vanno bene soprattutto in pianura, sui nostri monti occorrono ancora le braccia”.
Francesco mi ricorda un detto: “A la vaca i gh’e viv adrèe tucc, a la pegora invece no” (Dove ci stanno le mucche vivono sia gli uomini che gli animali, gli uccelli ecc. Quando si lasciano i prati al pascolo delle sole pecore rimane un’area quasi abbandonata). Continua Francesco: “Non voglio dire che una volta era tutto bello, si faceva fatica e a volte capitava di patire anche la fame. Ricordo che da piccolo - quando magari i grandi erano impegnati nei prati - avevo imparato ad andare in stalla e mungere in una scodella un po’ di latte per poterlo bere. Erano giornate con pochi riposi ma si era contenti del poco che avevamo. Oggi abbiamo certamente di più ma siamo insoddisfatti.
Nonostante tutto speriamo ci sia ancora qualcuno con la voglia di continuare: ci guadagneremmo tutti”.
Guido
IL GRINZONE n.76