FINALMENTE SON TORNATO...
Bergamini Giovanni, classe 1923: una sera simpatica a Gorio, con una “padèla de buroi” appena sfornata . “Védet che i castegn quest’an i g’à su la pel grosa … al vor dì che ‘l sarà n’inverno frecc” è la prima frase che mi dice mentre iniziamo a sbucciare – e mangiare – le ottime caldarroste.
Ma fra una castagna e l’altra Giovanni inizia a raccontare della naja, della prigionia, del ritorno…
Come è iniziata la tua storia militare?
All’inizio di settembre del 1942, avevo 19 anni, sono stato chiamato sotto le armi, a Como e poi subito a Merano e in Val di Fiemme. Io sono stato scelto con altri quattro per il corso anticarro a Riva del Garda e a Verona.
La nostra destinazione era la Russia …
In cosa consisteva il corso?
Dovevamo imparare ad attaccare delle mine sotto i carri armati per farli poi esplodere … si scavavano delle buche e dei fossati “a L” dove ci si nascondeva, nei possibili percorsi dei carri armati nemici e quando questi passavano occorreva la prontezza di collocare al posto giusto le mine calamitate. Ci hanno prima fatto conoscere come erano fatti i carri per individuarne i punti deboli, solitamente i cingoli; i carri armati su cui ci esercitavamo noi pesavano 22 tonnellate, invece quelli tedeschi o quelli russi, che ho visto dopo, ne pesavano oltre 70 con delle bocche di fuoco che era tutta un’altra cosa: rischiavamo di far loro solletico …
Poi finito il corso?
Intanto c’era stata la ritirata di Russia e quindi ci hanno detto che eravamo destinati in Iugoslavia. Io però nel gennaio del ’43, appena rientrato al Battaglione da Riva del Garda ottenni una licenza premio. Solo al rientro mi dissero che la mia Compagnia era partita e dovetti raggiungerla, con in mano una cartina ed alcuni viveri a Cerkno, in Iugoslavia appunto, passando da Gorizia e attraversando l’Isonzo. C’erano tre compagnie, Edolo, Morbegno e Tirano. Lì dovevamo cercare i partigiani di Tito, dovevamo entrare nelle case a perquisirle ma anche cercare in montagna e nei boschi. Le montagne assomigliavano molto alle nostre, c’erano molte case e baite isolate, ciascuna con un proprio pezzo di prato e di bosco. La gente viveva di agricoltura, era povera ma contenta di quel poco che aveva.
Ricordi qualche episodio particolare?
Il 24 luglio avevamo individuato un gruppo di partigiani in un bosco, purtroppo ci fu anche una sparatoria e quattro miei compagni rimasero uccisi. Io sentivo le pallottole fischiare sopra la testa … Ricordo che poi, venuta la sera, sentivamo i partigiani cantare e ci gridavano “siamo sloveni, vogliamo solo la libertà, tornate a casa vostra”. Ricordo ancora i brividi lungo la schiena … Un camion di carabinieri, poco sotto, è stato accerchiato e sono morti in 25. Allora ci hanno dato ordine di bruciare tutte le case … A fine agosto siamo rientrati in Italia, prima al campo di “contumacia” a Montesanto, vicino a Gorizia, e poi a Fortezza, sopra Bressanone nei pressi della ferrovia: lì ho trovato Pin Pasaè, Santo dei Botoi, Elpidio, che è morto il mese scorso, Renzo Filizìn e altri. Ho visto anche con meraviglia (ed ho capito solo dopo il perché) che i soldati italiani erano sempre accompagnati da soldati tedeschi. Avevamo piantato le tende in località “Varna” in una pineta, dove ho trovato Cinto Menelik. Ricordo che era arrabbiato perché doveva venire a casa per sposarsi ma gli si era ammalato il mulo - lui faceva il conducente - ed era dovuto restare per portarlo a curarsi. Se fosse riuscito a venire a casa avrebbe evitato anche la Germania come prigioniero perché eravamo all’inizio di settembre.
Siamo all’8 settembre del ’43 …
Sì e c’era una gran confusione; ci avevano dato i viveri per tre giorni ma non ci lasciavano mangiare; anch’io come altri tentai allora la fuga; a un certo punto, era notte, si sono accesi tanti razzi e i tedeschi cercavano di prenderci; con un gruppo siamo riusciti a spostarci in una pineta in montagna – per fortuna c’erano almeno i giòden da mangiare - e poi in un rifugio sopra Merano. Ma anche i civili alto atesini, che pure ci davano qualche mela, avevano l’ordine di consegnarci ai tedeschi … Non avevamo e non trovavamo da mangiare. Ricordo che sui monti a un certo punto ho incontrato un sergente della Brianza con un gruppo di valtellinesi ed altri: avevano trovato dei pastori ed erano riusciti a farsi vendere due pecore che stavano arrostendo; mi hanno messo a fare la guardia e solo dopo un bel po’ mi hanno dato anche un po’ di carne … Prima volevamo andare in Svizzera ma, alla fine, ci siamo decisi a cercare di scendere fino all’Isarco. Sono riuscito a recuperare un maglione, che mi sarebbe stato molto utile più avanti per difendermi dal freddo, ed un paio di scarpe, che sono riuscito poi a risuolare, ma che avevo ancora quando sono arrivato a casa. Comunque alla fine ci siamo disarmati e abbiamo deciso di andare avanti ed attraversare l’Adige, a due a due però per evitare di essere presi, col proposito di ritrovarci dall’altra parte. Di fatto eravamo ancora vicini a Merano e spinti anche dalla fame – erano tre giorni che non mangiavamo nulla - ci siamo consegnati in caserma. Dopo pochi giorni i tedeschi ci hanno portato, a piedi, a Bolzano e caricati su un treno diretto a Danzica, in Polonia, dove ci hanno sistemati in un campo.
C’era qualcun altro che conoscevi?
Sì, una quindicina eravamo della Valsassina, alcuni anche di Pasturo, Renato Bonasio, Angiolèto Filizìn, Calimero Plati, Carlèto Plati (che poi è stato ucciso in Polonia nel ‘45). Dopo pochi giorni ci hanno però divisi; io, assieme all’Ernesto Paroli di Introbio, sono stato portato al campo di concentramento di Birkenau, e dovevo lavorare per costruire una centrale a carbone, che produceva anche gas che a sua volta alimentava una centrale elettrica.
Cosa ricordi di quel periodo?
Dovevamo lavorare molto, avevamo sempre le guardie che ci controllavano, e non c’era molto da mangiare. Un po’ di verdura in una specie di minestra, erbe strane, carne non ne vedevi mai, un po’ di burro la domenica, pane poco. Una domenica uno del posto era riuscito a farci avere un bicchiere di vino: eravamo così deboli e non più abituati a berlo che siamo stati quasi male. Però, se lavoravi, ti lasciavano stare. Se invece qualcuno voleva ribellarsi o soltanto cercava di contraddire i capi, veniva mandato al campo di disciplina e spesso non sopravviveva. Ne ricordo diversi che purtroppo, a furia di torture e lavori forzati, vi hanno lasciato la pelle. Una volta avevo preso delle patate e una guardia ha cercato di colpirmi con la baionetta; per fortuna sono riuscito a scappare e mi ha strappato solo la pelle della schiena, altrimenti mi avrebbe ucciso. Lì faceva molto freddo, nevicava spesso ma non tanto, e noi avevamo vestiti non adeguati; i capi invece avevano dei pantaloni di pelle di pecora ed anche scarponi di pelle, non come i nostri. Per fortuna qualche volta si accendevano dei falò per poterci scaldare un po’. Dopo il primo anno abbiamo continuato a lavorare senza avere più le guardie che ci curavano, c’era anche un po’ di paga ed eravamo un po’ più liberi. Allora insieme a noi c’erano molti cecoslovacchi. Un giorno sono riuscito a sapere che c’era un altro di Pasturo, Rodolfo Orlandi Arrigoni, che lavorava in una fattoria lì vicino – al di là di una collina - e allora qualche domenica cercavo di andarlo a trovare: lui riusciva sempre a darmi qualcosa da mangiare che prendeva dalla fattoria, qualche uovo, qualche patata. Anch’io qualche volta, dopo il lavoro, andavo in un paese vicino, a Katowice, ed aiutavo una famiglia nel lavoro dei campi, della stalla e nel taglio della legna, per riuscire ad avere qualcosa da mangiare. Sono stato anche a Wadowice, il paese di Papa Giovanni Paolo II, per lavorare a sistemare alcuni ponti sulla Vistola.
Ma Birkenau era un campo di concentramento…
Sì, ma noi prigionieri lavoratori eravamo in alcune baracche poste in fondo e non sapevamo cosa avveniva nelle altre parti del campo. Alcune cose le abbiamo saputo solo alla fine della guerra. Quando non erano più in grado di lavorare li mandavano ad Auschwitz che è lì vicino … Ho visto l’orrore del posto qualche anno fa quando sono andato a visitarlo.
Come è finita la prigionia?
Il 30 aprile del 1945 il capocampo ci ha guidati, a piedi ovviamente, fino in Cecoslovacchia e lì ci ha lasciati liberi. Eravamo in tutto una quarantina; in otto, fra i quali c’era ancora l’Ernesto Paroli, che ci conoscevamo bene, abbiamo cercato di organizzarci e siamo entrati in una casa di un villaggio. C’erano alcune donne molto spaventate ma poi ci hanno aiutato anche se anche loro non avevano molto da mangiare. Ricordo che è passato un plotone di alpini tedeschi che ci ha rifocillati avvertendoci che stavano arrivando i russi. Il giorno dopo ero uscito in strada quando hanno cominciato a sparare da una parte e dall’altra e sono stato ferito: una pallottola, non so se sparata dai russi o dai tedeschi, mi ha trapassato una coscia; il foro d’entrata era piccolo ma dove era uscita mi aveva portato via un bel po’ di carne. Sono svenuto anche perché ho perso molto sangue ed i russi mi hanno portato in una caserma in infermeria; anche gli altri sono stati portati nella stessa caserma e lì ci hanno dato un lasciapassare per venire in Italia: quel lasciapassare ci ha salvato la vita in diverse occasioni. Dopo alcuni giorni un maresciallo di Novara ha preso il comando del nostro gruppo e ci siamo avviati verso l’Ungheria.
Ma la ferita era guarita?
Assolutamente no, anzi bruciava tantissimo, ma la voglia di tornare era tanta per cui stringevo i denti e camminavo assieme agli altri. Alcuni partigiani cecoslovacchi ci accompagnavano da un villaggio all’altro. Ricordo che in un capannone abbandonato sono riuscito a prendere un sacco di fagioli: che festa con tutti gli altri quando li abbiamo fatti cuocere! Siamo così arrivati dopo alcuni giorni a Budapest e lì abbiamo incontrato un venditore di cavalli che ci ha indicato la strada per l’Italia.
Allora poi è andato tutto bene?
Purtroppo no, soprattutto l’attraversamento dei fiumi, i cui ponti erano quasi sempre distrutti, creava grosse difficoltà. In un posto abbiamo impiegato quasi due giorni per riuscire ad attraversare: abbiamo dovuto aiutare a scaricare e poi caricare dei camion di farina per farci portare, come ricompensa, sull’altra sponda con la barca; qualcuno non è neppure riuscito ed è purtroppo annegato. E poi c’era sempre il problema di trovare qualcosa da mangiare … In un posto siamo riusciti a scambiare del cuoio che uno di noi aveva nello zaino con del pane. A Lubiana ci hanno presi come prigionieri; per fortuna avevamo il lasciapassare dei russi che ci ha permesso di proseguire. Lì siamo riusciti anche a prendere il treno fino all’Isonzo. Dall’altra parte abbiamo poi trovato gli Americani che con dei camion ci hanno portati fino a Mestre e soprattutto ci hanno dato da mangiare, anche una scatola di biscotti ciascuno …
Finalmente in Italia e quindi a Pasturo …
Con tutti i mezzi possibili – treno, pullman, camion, a piedi – sono arrivato a casa il 5 giugno. La ferita si era infettata e ho dovuto curarla per un bel po’ e riprendere anche qualche chilo: quando sono partito nel ’43 pesavo 72 chili, dopo la prigionia ne pesavo solo 46. Comunque appena arrivato sono andato a letto e mi sono svegliato il giorno dopo nel pomeriggio …
A guerra finita sono rimasti i ricordi …
Nel 1993 mi hanno conferito la “croce al merito di guerra”; la lettera di accompagnamento, firmata dal Col. Aldo Vinci, dice: “in riconoscimento dei sacrifici sostenuti nell’adempimento del dovere in guerra, le esprimo i sentimenti di gratitudine dell’eser-cito”. Ricordo che mi hanno chiamato i Carabinieri per consegnarmela e anche il Maresciallo mi ha elogiato.
E qualche anno fa ti è venuta voglia di tornare a vedere quei posti …
Era un po’ che ci pensavo e sono stato proprio contento di poterci andare due anni fa. In macchina con mia figlia Carla, mia moglie e mia cognata, siamo stati proprio in Polonia: ho rivisto Birkenau, Katowice ma anche Cracovia, Czestochowa… A Wadowice ho visitato con commozione la casa natale del Papa ed il museo che raccoglie i suoi ricordi … anche i suoi sci … Mi è proprio piaciuto molto: ho visto le baracche dove alloggiavo a Birkenau, ma non sono riuscito a ritrovare la fattoria di Katovice. I luoghi sono troppo cambiati. Invece è ancora uguale il campanile molto alto della Chiesa degli Evangelisti che si vedeva bene allora ma anche adesso.
Guido
IL GRINZONE n. 21