MIO PAPA' AVEVA APPENA 51 ANNI...
In uno di quei pomeriggi belli ma freddi che hanno caratterizzato la recente stagione invernale, nella casa del fratello Piero, incontro De Dionigi Fiorenzo, classe 1923, disponibile a raccontare e condividere con i lettori del Grinzone alcuni ricordi dell’ultima guerra.
Partiamo dalla tua famiglia…
Eravamo otto figli, sei maschi (Carlo, Fiorenzo, Angelo, Riccardo, Piero e Santo) e due femmine (Martina e Teresa), ed io ero il secondogenito. I miei genitori avevano, come un po’ tutti in quel tempo, alcune mucche ed erano contenti quando qualche figlio trovava un’occupazione anche presso altri… Da una parte era una bocca in meno da sfamare e dall’altra si portava anche a casa qualcosa. Anch’io fin da piccolo sono andato a fare il “famèi”, l’aiutante, presso Ticozzi Francesco (Panarot) e Invernizzi Gianfranco (Puciasca). Inoltre, quando c’era bisogno e se ne presentava l’occasione, aiutavo altri a tagliare legna.
Poi è arrivata la chiamata alle armi…
Nel 1942 sono andato per la visita a Introbio e sono stato arruolato con gli alpini con destinazione Merano. Sono partito il 14 settembre; con me c’era anche Bergamini Giovanni (Lusèrta), ma arrivati a Merano ho trovato molti altri di Pasturo (Bergamini Giuseppe, Platti Calimero, Orlandi Arrigoni Marino). I primi mesi sono stati tranquilli: ho fatto il corso sciatori prima in Val di Fiemme e poi a Cervinia. Dopo il rientro a Merano ho dovuto raggiungere il mio Battaglione che nel frattempo era stato trasferito a Circhina, vicino a Gorizia, dove avevamo il compito di pattugliare il territorio e controllare i “partigiani” iugoslavi. C’era ancora assieme Giovanni Bergamini, e ricordo che si rischiava anche di cadere in imboscate perché, mentre loro conoscevano bene la zona e potevano sferrare un attacco e scappare nei boschi a nascondersi subito dopo, noi dovevamo muoverci con maggior attenzione e cautela.
Sei rimasto molto tempo?
Verso la fine di luglio 1943 siamo rientrati a Gorizia, anche per sistemarci. Si diceva che eravamo “in contumacia”… Da lì siamo andati poi a Fortezza e alla fine di agosto a S. Candido. Non c’era posto per tutti nelle caserme per cui alcune compagnie, come la mia, si accampavano nei boschi circostanti.
E siamo all’8 settembre 1943…
Ricordo che quel giorno pioveva e c’era una gran confusione. Si sentivano voci sull’armistizio, sulla fine della guerra, ma anche voci contrarie. Si diceva che dovevamo rientrare tutti in caserma. Infatti il capitano della 45^ compagnia seguì quelle indicazioni mentre il nostro capitano – eravamo la 44^ compagnia - si recò da solo nei pressi della caserma per capire cosa stava succedendo e tornando ci disse che era meglio scappare nei boschi (aveva visto che gli altri soldati in effetti venivano poi messi sul treno e trasferiti in Germania). Iniziò così un primo periodo di fuga e con me c’erano altri tre pasturesi: Orlandi Cinto, Bergamini Egidio ed Elpidio Ticozzi.
Cosa ricordi di quei momenti?
Ricordo che, dopo aver girovagato nei boschi, abbiamo trovato l’aiuto di diverse persone che ci hanno dato da mangiare e degli abiti civili per poter prendere il treno senza farci arrestare. Anche alcuni ferrovieri ci hanno dato una mano, ad esempio nascondendoci in un carro bestiame quando stavano arrivando dei tedeschi e facendoci uscire e trasferire su un altro treno subito dopo. E così il 14 settembre sono arrivato a Lecco e sono salito a Pasturo insieme a tuo papà (Peppino Agostoni) che ho incontrato proprio a Lecco.
A Pasturo com’era la situazione?
A casa mia c’era molta preoccupazione per mio fratello Carlo che non era rientrato dalla campagna di Russia (mentre quelli che ce l’avevano fatta erano arrivati in marzo) e per l’altro fratello, Angioléto, che sapevamo essere stato “inviato” in Germania. Io dovevo cercare di stare nascosto per evitare di essere preso dai tedeschi ma anche dagli italiani che per diversi motivi collaboravano facendo sapere dove ci nascondevamo. Io, quando non mi trovavo nei boschi a tagliare legna, andavo ai Grassi Lunghi perché la mia famiglia aveva la baita con le bestie. In paese si veniva solo qualche volta soprattutto di notte. A volte c’erano delle retate; ricordo che il 17 ottobre - sempre del ’43 - sono riuscito, assieme ad altri fra cui Andrea Pelandìn, a non farmi prendere; quando però Andrea è rientrato alla baita non ha più trovato i suoi due fratelli e neppure la mucca …
Siamo all’inverno 1943…
L’inverno bene o male è passato ma poi, nella primavera successiva del 1944 in paese sono apparsi dei grandi manifesti che invitavano tutti i nati dal 1916 al 1926 a recarsi al Distretto di Como; chi non l’avesse fatto entro l’8 marzo, se trovato, sarebbe stato fucilato. Non era facile decidere cosa fare; mio papà non si pronunciava, aveva il pensiero degli altri due figli ancora lontani ma neppure voleva che io corressi rischi eccessiv … Ho sentito anche gli altri giovani del paese e alla fine in molti abbiamo deciso di rispondere alla “chiamata” ed abbiamo preso la corriera ma ad ogni tappa prima di Lecco diversi scappavano… Solo alcuni – io, Renzo Castelletti, Bergamini Domenico (il messo comunale), Orlandi Franco (Frata) e Merlo Giulio – siamo arrivati a Como dove c’erano così tanti uomini che era pieno tutto il piazzale davanti al Distretto per cui siamo stati mandati a Milano. Anche lì c’era molta gente e confusione ma noi siamo riusciti a presentarci tutti (anche i non alpini come Merlo Giulio) al “Centro Reclutamento Volontari Alpini”. Ci hanno poi trasferiti a Varese da dove, dopo circa un mese, si doveva andare in un’altra città. Correva voce che ci avrebbero mandati in Germania; ricordo che il comandante ci disse che potevamo andare a casa a salutare i nostri parenti ma che non poteva darci nessun permesso ufficiale… In altre parole era un invito a scappare… Non avevo neppure le scarpe, portavo ancora i miei zoccoli coi quali ero partito da casa ma sono tornato a Pasturo e, invece di ripresentarmi poi in caserma, mi sono rifugiato ancora nei boschi. In quel periodo ricordo che la maestra Bambina riusciva a far avere qualcosa da mangiare soprattutto per quelli che non avevano parenti nelle baite di montagna. Bisognava stare molto attenti perché il rischio di essere visti da qualcuno e segnalati, e quindi arrestati, era molto alto, soprattutto se si tornava in paese.
Ma quell’estate del ’44 successe un fatto molto grave.
Nel vicino paese di Maggio all’inizio di settembre venne uccisa la moglie di un comandante fascista, un “repubblichino”; per ritorsione un gruppo di fascisti anziché andare verso la Culmine, da dove era venuto il commando, ha preso la strada dei Grassi Lunghi per salire al Pialeral. Lunedì 4 settembre mio papà, che aveva sentito che tirava una brutta aria, anzichè passare da Balisio per caricare della roba da portare ai Grassi Lunghi, è salito da Gorio per raggiungere la baita. Io ero a fare il fieno da un’altra parte, quando i fascisti salivano nella valle e sparavano. Mio papà in quel momento usciva dalla stalla: quando l’hanno visto i fascisti hanno mitragliato e una pallottola l’ha colpito proprio in testa facendolo stramazzare a terra con ancora stretto il secchio del latte appena munto…
Io ho visto mio papà cadere – ricorda con commozione il fratello Piero, che allora aveva 14 anni - ma non potevo avvicinarmi perché quelli continuavano a sparare ed insieme ai miei fratelli avevamo paura che prendessero anche noi. E poi non c’era neppure la mamma che era rimasta a Pasturo.
Quando si sono allontanati ho visto che il papà era morto; allora abbiamo chiamato dei vicini, uno dei quali il giorno dopo ha cercato di chiedere spiegazione a quelli che avevano sparato ma quelli dicevano che loro sparavano a chi volevano… Il papà aveva appena 51 anni.
Alla sera è arrivata mia mamma, che era stata avvertita dal parroco don Cima di correre ai Grassi Lunghi ma ancora non sapeva che il marito era morto, per cui l’ha trovato ancora lì davanti alla stalla…
Cosa è avvenuto dopo e quale è stata la tua reazione ?
E’ stato un momento molto triste per tutti, per la mamma, per me e per i miei fratelli. A quel punto io ero il maggiore e mi hanno dato una carta con l’esonero in quanto “sostegno di famiglia”. Non riuscivo però ad essere tranquillo perché troppe cose non andavano bene; per questo non dormivo a casa mia ma da un vicino così da poter scappare se fossero venuti a prendermi. Purtroppo il mese successivo, ad ottobre, alcuni “repubblichini”, guidati da uno che sapeva dov’ero, mi hanno bloccato e trasferito a Introbio dove avevano il distaccamento i fascisti. Mia mamma si è rivolta al segretario del fascio, che era allora Merlo Pietro (Marcotèl), che non l’ha neppure ascoltata. Era andata allora dall’avvocato Pozzi che è venuto subito ad Introbio, ma il comandante non ha voluto parlargli per cui ha consegnato una lettera per spiegare la mia situazione. Sono stato lì una decina di giorni, mi facevano lavorare in cucina o dove c’era bisogno e poi mi facevano molte domande sulla maestra Bambina (ma io dicevo solo che, per come la conoscevo io, era una brava maestra…), sul dottor Magni e sulle loro attività coi partigiani, io rispondevo sempre di non sapere nulla.
Ad altri, che erano lì con me e che pure erano interrogati, davano anche un sacco di bastonate perché magari non riferivano tutto quello che secondo loro avrebbero dovuto sapere. Ricordo che ad esempio avevano picchiato anche Castelletti Renzo che, essendo stato coi partigiani, avrebbe dovuto sapere. Ricordo anche la sorella del dr. Magni che veniva spesso frustata assieme ad una maestra di Primaluna. Una sera ci hanno chiesto di preparare le vettovaglie per un gruppo che il giorno dopo avremmo dovuto accompagnare al Pialeral e al Rifugio Brioschi che volevano incendiare. Erano una trentina e abbiamo continuato a lavorare tutta la notte per cui al mattino ci hanno lasciato dormire e si sono fatti accompagnare dal Giromìn e da Mario Ticozzi che nel frattempo erano andati a prendere a Pasturo.
Finalmente il 4 novembre, sempre del ’44, sono riuscito a tornare a casa. Ricordo che la strada da Introbio a Pasturo l’ho fatta assieme a Bonasio Isaia.
A questo punto la situazione era un po’ più tranquilla?
Sì, anche se in casa si sentiva molto la mancanza del papà; e poi bisognava sempre cercare di non farsi trovare dai repubblichini. Inoltre permaneva la preoccupazione per i nostri due fratelli di cui non sapevamo nulla. Solo dopo il 25 aprile del ’45, nel mese di maggio, è tornato Angiolèto, che era stato nei campi di concentramento e poi nei campi di lavoro in Germania, assieme anche a Renato Bonasio. Mio fratello Carlo invece non è più tornato…
Come è ripresa la vita a Pasturo dopo la guerra?
Pian piano c’è stata la riappacificazione, anche se i fascisti stavano abbastanza ritirati e si facevano vedere poco in giro, soprattutto di sera… Bonasio era più rispettato perché aveva avuto il figlio prigioniero in Germania, mentre altri, ad esempio Gennari che gestiva l’Albergo dove adesso c’è la casa Bregaglio, non si faceva proprio più vedere…
D’altra parte la vita doveva continuare...
Io ho continuato nel lavoro sia in stalla e nei campi che come taglialegna. Nel gennaio del 1953 mi sono sposato con Innocenta; ricordo che mio fratello Piero nel frattempo era a sua volta a fare il militare e non ha potuto venire in licenza perché c’erano le manovre della NATO. Sono poi nate le mie figlie, Mariacarla, Livia e Rosangela; e poi i nipoti…
A distanza di molto tempo, qual è il ricordo di quegli anni che ricorre più spesso?
Quando sono arrivati a prendermi a casa, nonostante mio padre fosse stato ucciso da poco tempo ed io avessi l’esonero. Pensavo a me, ma anche a mia mamma e ai miei fratelli…
Mi rendo conto che è stato difficile per te raccontare queste cose, soprattutto alcuni episodi, ma pensi che abbia un senso ricordare anche per i giovani d’oggi?
Sì, ho fatto fatica a parlare, lo sapevo che mi sarebbe venuto da piangere...
Però è importante ricordare la storia e sapere cosa è successo. Si sentono a volta dei giovani lamentarsi per alcune situazioni che forse potrebbero affrontare con maggior coraggio e con meno lamenti se conoscessero meglio il passato ed anche i sacrifici che abbiamo dovuto sopportare.
Grazie Renzo.
Guido
IL GRINZONE n. 30