GIACOMO INVERNIZZI (METO)

 

L’inizio dell’intervista è stato del tutto casuale: lo scorso luglio sono andato all’ospedale di Lecco a trovare Giacomo Invernizzi, “Mèto”, che aveva subìto da pochi giorni un intervento di cardiochirurgia per due bypass e la sostituzione della valvola aortica. Novantenne da aprile (è nato infatti nel 1926), mi aspettavo di trovarlo ancora in terapia semintensiva… Nulla di tutto questo: Mèto era già stato trasferito in reparto, tranquillamente seduto su una sedia a leggere il giornale. E con una gran voglia di raccontare… a partire proprio dal fatto di trovarsi in ospedale: “Non volevo venirci, avrei preferito farmi curare stando a casa, ma non era possibile”.

Come tutti gli anni in estate era salito ai monti (Risciòl) con le bestie assieme al figlio che gestisce un’azienda agricola. “Per quello che riesco, cerco di aiutarlo nella conduzione della stalla e dei prati, anche perché mi è sempre piaciuto questo mestiere, in particolare d’estate sui monti”. Quest’anno però avvertiva una certa malavoglia che di sera diventava un dolore abbastanza intenso attorno alla spalla; curato con antidolorifici il dolore si attenuava, ma poi si ripresentava puntuale e più intenso la sera successiva. E’ andato dal medico che l’ha indirizzato al Pronto Soccorso per tutti gli accertamenti del caso. “Dopo un esame ho notato che i medici e gli infermieri, commentando l’esito, si sono ammutoliti: non parlava più nessuno, e io non sapevo cosa pensare…”. In effetti si erano resi conto che sarebbe stato necessario un intervento ma come proporlo ad uno che aveva già compiuto novant’anni? I medici erano perplessi ma poi il Primario ha deciso che l’intervento si poteva effettuare, sempre che il paziente fosse d’accordo. “Io ero dell’idea di farlo, ma ho voluto chiedere anche ai miei figli che, di fronte alla mia determinazione, non hanno avuto obiezioni; ringraziando il cielo, tutto è andato bene”.

Dimesso dall’ospedale Mèto ha voluto comunque salire ai monti da cui solo a settembre è sceso, con la “transumanza” del bestiame del figlio, a Pasturo in Viale Trieste; e qui… l’intervista è continuata.

Mèto, cugino di Invernizzi Pio (vedi IL GRINZONE N. 49), è figlio di Natale (classe 1892 e terzo figlio del capostipite Giacomo) che aveva sposato Ticozzelli Elisabetta (dei “Brachìtt”) ed aveva mantenuto l’attività di allevatore e produttore di formaggio.

Il nome Giacomo è ovviamente legato al nonno, anche se da sempre - si può dire - è stato chiamato Méto. E’ il primogenito di quattro fratelli, gli altri sono Carlo, Giovanni e Marino. In realtà avrebbero dovuto essere cinque: nel 1941, quando Méto aveva 15 anni e suo fratello Marino 10, un pomeriggio si sono recati a “far foglia” nel bosco al “Palòt”. Ad un certo punto, mentre lui si era allontanato per portare il gerlo più in basso, si è sentito chiamare dal fratello Marino che gli stava dicendo: “Vieni a vedere cosa ho trovato…” Non ha fatto in tempo ad avvicinarsi quando ha visto il fratello quasi avvolto dalle fiamme e dilaniato dallo scoppio di una bomba a mano probabilmente scambiata per un giocattolo. E’ un ricordo che non l’ha più abbandonato: ha cercato di abbracciare il fratello ma purtroppo non c’era più nulla da fare. Sentito lo scoppio sono arrivate diverse persone, poi i carabinieri, il medico … Solo il giorno successivo hanno potuto spostare il corpo di Marino, portandolo direttamente nella camera mortuaria del cimitero. “Non ha potuto più passare da casa neppure da morto” si lamenta Méto, che ricorda come un po’ di tempo prima a Pasturo c’era stato un battaglione di soldati (che aveva perso o abbandonato quella bomba micidiale… Dopo alcuni anni, nel 1945, è nato l’ultimogenito che è stato chiamato Marino.

L’anno precedente, nel 1944, Méto era stato precettato per presentarsi al Distretto di Como; è andato in Comune dal podestà Bonasio a firmare e a prendere i “documenti di viaggio” ma poi, anziché andare a Como, è salito sui monti dove è rimasto per diversi mesi senza farsi trovare. Finita la guerra ha fatto il servizio militare normalmente: prima a Fossano (CN), poi, avendo frequentato il corso di autista (“Il fatto di avere il diploma di quinta elementare me lo ha permesso”) ed avuta la patente, a Palmanova del Friuli come carrista.

Rientrato a casa ha continuato, con i genitori ed i fratelli, l’attività agricola, in particolare sui monti a Risciòl e Partüs.


       


Nel 1951, a venticinque anni, il 27 di ottobre si sposa con Invernizzi Santina
(“Posso dire che siamo quasi cresciuti insieme e ci siamo sempre voluti bene”) di diciotto anni, sorella di Pio che, nella stessa giornata, sposa Orlandi Lina: hanno festeggiato insieme i vari anniversari fino al sessantesimo; quest’anno purtroppo per il 65° non ci potranno essere i cugini essendo morta da poco la moglie di Pio.

Certo sono stati anni ricchi di soddisfazioni … e di figli: sono nati Annamaria nel 1952 (sposata con Candido Doniselli), Natalina nel 1954 (sposata a Primaluna con Sergio Piloni), Antonio nel 1956 (sposato con Rita Ticozzi), Teresina nel 1957 e Graziella nel 1975. Entrambe, Teresina e Graziella, hanno potuto studiare e vivono tuttora coi genitori dando una mano nei vari lavori di casa e dell’azienda agricola del fratello pur avendo ciascuna una propria attività: Teresina è infatti insegnante alle elementari di Pasturo e Graziella fa l’infermiera all’Ospedale di Lecco. Attualmente la “famiglia allargata” conta anche sette nipoti e sette pronipoti …

I primi anni di vita familiare sono stati particolarmente difficili: quattro figli piccoli da crescere, possibilità economiche scarse, bisognava arrangiarsi “Certo non potevamo comprare le scarpe per tutti; un paio di zoccolette che facevo io potevano bastare almeno a casa; usavo il legno di acero perché è leggero, forte e facile da lavorare”. “Era proprio una vita ‘magra’ – aggiunge la moglie Santina – per fortuna anche i miei suoceri, che pure tiravano la cinghia, ci aiutavano in caso di bisogno. Quando eravamo ai monti qualche volta ci facevano avere una quindicina di michette di pane che sarebbero dovute durare almeno una settimana ma che spesso finivano già il giorno dopo …”. “Però fin qui siamo arrivati e non ci possiamo lamentare” continua Méto. Entrambi sono orgogliosi della loro famiglia, anche se “non sono state tutte rose e fiori…”. La vita di agricoltore, continuata assieme ai fratelli e ai genitori fino al 1974, ed attualmente portata avanti dal figlio Antonio, gli è sempre piaciuta ma ha richiesto molti sacrifici. Inoltre Méto ha avuto anche alcuni problemi di salute non banali. Ricorda che, a ventinove anni, mentre era sui monti al Partüs dopo alcuni giorni di dolori lancinanti alla pancia, hanno dovuto portarlo a braccia fino a Roversìn e da lì su una slitta a Pasturo: “Era notte ma trasportato all’ospedale di Bellano sono stato operato d’urgenza per peritonite …”. Qualche anno dopo ha avuto un ingrossamento significativo alla faccia e sono dovuti intervenire per toglierlo, temendo il peggio, ma per fortuna si è tutto risolto per il meglio. Attorno al 1960 “mentre viaggiavo in bicicletta, a Primaluna, sono stato investito da una macchina che mi ha letteralmente ‘spolpato’ una gamba e mi son dovuto fare ben 72 giorni d’ospedale. L’investitore non aveva neppure l’assicurazione, che allora non era obbligatoria, e non mi ha risarcito per nulla”. Fra l’altro, proprio il giorno dell’incidente, la figlia Teresina veniva ricoverata a Milano per i suoi problemi alle anche per cui la moglie Santina doveva portare avanti la famiglia col marito in ospedale a Lecco e la figlia a Milano e non c’erano neppure i soldi per farsi accompagnare a trovarla: “Per fortuna il Rupani (Cùco) di Introbio, e anche qualcun altro, quando dovevano già andare a Milano ce lo dicevano e ci permettevano di andare insieme…”.

Infine tre anni fa, a 87 anni, l’intervento di protesizzazione all’anca, sconsigliato un po’ da tutti vista l’età ma conclusosi positivamente: “D’altra parte io non riuscivo più a camminare e meno male che ho trovato il dr. Walter Cepparulo dell’ospedale di Ponte San Pietro che ha deciso di operarmi così da poter camminare ancora…”.

Fino all’intervento di cardiochirurgia a 90 anni …

Dell’infanzia ricorda positivamente la scuola: “Mi piaceva andarci anche se ogni tanto ne combinavo qualcuna delle mie …”. Ad esempio quando ha cercato di spingere in discesa la Topolino di un veterinario amico della maestra Bambina: “Mi è arrivata alle spalle senza che mi accorgessi e mi ha assestato un tremendo scappellotto; sono rimasto intontito per alcuni minuti e da quel momento per me la maestra Bambina non è più stata considerata; neanche anni dopo quando ci siamo trovati come consiglieri comunali gliel’ho perdonata perché secondo me è stata eccessiva…”.

Méto racconta poi che, al termine delle elementari, con alcuni compagni (Giovanni ‘Scalét’, Piero ‘Luserta’ e Ambrogio ‘Manéta’) avevano deciso di festeggiare: “Ambrogio aveva recuperato un fiasco di vino, Piero faceva la polenta, Giovanni aveva il taleggio e io ho portato un po’ di grasso di maiale per fare una taragna; eravamo nella casa del Piero in Via Parrocchiale e ci siamo divertiti tanto, ma di notte qualcuno ha rischiato di morire per indigestione…”.

Negli anni settanta Méto è stato anche Consigliere Comunale “assieme a Millo Merlo, Fausto Agostoni, Tomaso Pigazzi, Antonio Mazzoleni … “Allora, quando c’era Consiglio, dovevamo scendere dai monti per poi risalire di notte ovviamente a piedi; le riunioni a volte finivano anche dopo mezzanotte e prima dell’alba dovevamo essere pronti per accudire le bestie e mungerle. Ricordo che ci facevamo compagnia io, che andavo fino al Partüs, e Dionigi Ticozzelli che saliva alla Còa”.

Oggi vede molti cambiamenti nella vita del paese: “Una volta la vita era povera ma forse eravamo più contenti. Con quattro o cinque mucche una famiglia intera, anche abbastanza numerosa, riusciva a vivere. E poi bastava qualche sabato all’osteria e in compagnia per sentirci tutti allegri. Oggi si cerca di lavorare il meno possibile e senza fare fatica. Qualcuno poi vuole solo essere mantenuto anche se arriva da via. D’altra parte per il lavoro noi avevamo solo il gerlo, la ranza e il rastrello mentre ora ci sono più mezzi meccanici, dalla falciatrice al trattore e così via. Nonostante questo, la vita di agricoltore in montagna la fai solo se hai una grande passione altrimenti conviene lasciar perdere. Io questa passione l’ho sempre avuta e spero continui ad averla anche mio figlio, perché se chiudono i nostri agricoltori e allevatori che fine fanno i bei prati sui monti di Pasturo? Gli agricoltori di montagna dovrebbero essere più sostenuti. Anche il Comune dovrebbe aiutare, almeno a sistemare le strade…”

 

Se ho occasione di vedere il Sindaco glielo ricordo, promesso!

 

                                                                                  Guido

 


IL GRINZONE n. 56