Antonia Pozzi
Camogli, 1938
Il bisogno di documentare attraverso il mezzo fotografico è anzitutto necessità di ricordare i luoghi e le persone dei propri affetti, la solennità e la bellezza della natura, il mondo incantato e innocente dell'infanzia, la semplicità e l'armonia della vita dei piccoli borghi rurali. (Ludovica Pellegatta).
La roccia
La poesia è scritta nello stesso giorno di altre tre liriche: Ai fratelli, Settembre, Tristezza dei colchici; ed è la terza, nell’ordine di successione nei Quaderni, dopo Settembre. Tralasciando la prima e la quarta lirica, non perché meno importanti, ma perché implicherebbero un discorso molto più lungo, l’attenzione si ferma su Settembre per il suo raffronto inevitabile con La roccia, come diremo più avanti.
Il titolo, «La roccia», ci lascia stupiti e sorpresi non appena si legge il primo verso: «Trine di betulla», che crea uno scarto fortissimo con esso: durezza e sicurezza, compattezza, stabilità e fortezza, da una parte; di contro, leggerezza e grazia, armonia e dolcezza di movimento, ma anche fragilità e instabilità, frammentarietà e fuggevolezza. La valle si configura come un mare di luce traforato da piccole ombre, una «trina», appunto; la trina è, però, un ornamento, abbellisce, ma non fonda, non dà sostanza all’oggetto.
Antonia definisce «trine» i suoi pensieri del momento presente e certamente vuole indicare, con tale metafora, la loro frammentarietà, la loro fragilità, il loro essere in fuga, in rincorsa, senza un centro, senza un fondamento certo. Come le piccole tremule foglie delle betulle, che nel loro lieve moto diffondono luce e ombra, così i suoi pensieri: sono tanti, i più svariati, i più sognanti, i più speranzosi, i più tristi, sempre in moto nel tentativo e nel desiderio di fissarne e di concretizzarne qualcuno; sembrano dare luce al cuore, ma è una luce passeggera, presto sospinta altrove dal primo alito di vento, dalla prima burrasca.
A questo presente, fatto di stati d’animo che si colorano e trascolorano in pochi attimi, subito si contrappone il passato, «ieri», e la «nuda montagna», «la roccia», appunto, del titolo; svaniscono allora le «trine di betulla», svaniscono i tentennamenti, i dubbi, le sospensioni, le angosce quando «il taglio delle rupi più eccelse» si staglia davanti allo sguardo e allo spirito di Antonia, come esempio di forza e di fermezza: «era il disegno/ della mia forza – in cielo»; «in cielo», non nella valle ricamata dalle trine delle betulle; «in cielo», in alto: là, Antonia vuole tendere, l’alto è la sua mira. Lo aveva già detto con slancio e decisione in una lirica di qualche anno prima: «Anima, sii come la montagna:/ che quando tutta la valle/ è un grande lago di viola/ […] lei sola, in alto, si tende/ ad un muto colloquio col sole» (Esempi, 10 aprile 1931). Allora il suo cuore non può più «parlare di rovina», come ha fatto qualche ora prima, nella poesia Settembre «[…] miei boschi/ vi è tanta pace/ in questa vostra muta/ rovina/ che in pace ora alla mia / rovina/ penso»; no, finché la montagna le insegna a tendere verso l’alto, le insegna la forza e il coraggio dello scalatore che non teme lo «spigolo nero a strapiombo»; perché«[…] la montagna è la prima che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi», come scrive all’amica Elvira (Lettera a Elvira Gandini, 8 agosto 1933); ma la sola montagna non basta a salvare dalla «rovina»:ci vuole «una corda [che] s’annodi all’anima». Fra tante metafore che costellano la lirica, questa della «corda» è forse la più nascosta, ma certamente la più importante: che cosa vuole dire questa «corda», che non s’annoda al corpo ma all’anima?
Antonia riflette in questo periodo sul valore della sua poesia «[…] quello che mi fa più pena è il mio povero quaderno, “l’esercito di monchi e storpi”» […], scrive a Paolo Treves il 26 agosto 1933, alludendo, appunto, alle sue poesie, alle quali, forse, vorrebbe dedicare più tempo o che, forse, non le sembrano vere poesie, ma con la coscienza che la poesia soltanto può salvarla dalla «rovina», anche se le costerà una fatica suprema, come quella «del falco/ che sul torrione più alto/ regalmente ha voluto/ morire» e le cui ossa , ora, risplendono al sole, bianche; e «bianca» sarà l’anima della poetessa, illuminata dalla luce della poesia e purificata dalla fatica compiuta. Scrive, infatti, Antonia, ancora a Paolo Treves, il 9 settembre, proprio il giorno dopo che ha scritto La roccia: «A volte mi sembra che l’unica possibilità di vita, per me, stia lì; l’unica possibilità morale, intendo; perché sarebbe uno sforzo di volontà continuo, lo sforzo più grande ch’io possa fare: vincere il peso inerte delle parole inanimate, farle vive[…]. Ah, sogni, ancora sogni… Chi mi dice se è sogno o dovere?».
Questa domanda troverà una risposta il 13 febbraio 1935, nei versi della lirica Un destino: […] se è tua / questa che è più di un dolore/ gioia di continuare sola/ nel limpido deserto dei tuoi monti// ora accetti/ d’esser poeta.
Onorina Dino
Sera a settembre
Lo sguardo di Antonia è sempre uno sguardo di intenzione, di partecipazione affettuosa, che sarebbe più corretto definire com-passione. La sua umanità è sensibile a ogni evento, sia pur piccolo, che si tinge di sofferenza e dolore; e non importa che l’oggetto della compassione faccia parte della categoria delle persone care o delle persone conosciute, cui la stringe una sorta di “parentela paesana”, come la gente di Pasturo, ormai sua patria elettiva; qui, in questa lirica, la compassione è tutta rivolta verso gente forestiera, guardata male quasi sempre e ovunque dagli abitanti autoctoni: una famiglia di zingari, arrivati a Pasturo chissà da dove. Su di loro si china la tenerezza di Antonia. Ma prima che si focalizzi su di essi, «accampati sulle strade», il suo sguardo si è allargato su un panorama molto più ampio, nel quale si allineano e si intrecciano monti e valle, animali, carri e bambini, «rade case illuminate»; e tutto è avvolto da un brivido di freddo, perché ai monti c’è «aria di neve».
Un fatto abituale di transumanza autunnale, che vede armenti e greggi lasciare i monti e scendere al piano, diviene creazione poetica, perché la scena, contemplata nei suoi particolari, è penetrata nell’anima della poetessa, avvezza, sì, a una vita agiata, ma non per questo indifferente alla vita degli altri, soprattutto quando la scopre ben diversa dalla sua, perché oppressa dalla fatica e dalla povertà, ma anche perché genuina e libera, come quella dei bambini che «s’aggrappano ai carri», per godere del loro dondolìo, del loro odore di fieno, della compagnia dei grandi, con i quali sentirsi grandi anch’essi. E quanta energia e scioltezza e vivacità in quell’aggrapparsi: è una conquista, una vittoria.
Questa dei bambini è l’unica immagine piena di vita e di gioia presente nella poesia; essa fa intuire anche le loro voci fresche, squillanti, che Antonia tace, perché più forte risuonano dentro di lei le voci degli zingari: non perché più alte o più potenti, ma perché fievoli, stremate, fioche come l’ombra da cui escono cantilenando nenie, forse a consolare la loro condizione di marginalità, di estraneità, di solitudine. Sembra quasi che l’«aria di neve» che viene dai monti, e che fa supporre un cielo sbiadito e cinerino, accenda nel cuore della poetessa un fuoco d’amore fraterno e il desiderio di alleviare la pena di chi soffre, in questo caso gli zingari, che non hanno altra casa se non la strada e altro tetto se non il cielo, che, però, minaccia neve. Conferma di questa volontà, di questa tenerezza, di questa intima sofferenza, è il pronome «me», che assume grande pregnanza, non solo per la sua posizione forte – dopo l’inciso «-allora-» e all’inizio del secondo emistichio del verso –, ma anche, e si dovrebbe dire innanzi tutto, per quella «a» posta davanti al pronome, che dovrebbe indicare il moto delle nenie dal basso verso l’alto e che acquista, invece, un valore fortemente affettivo, di dativo di interesse, come a dire: per me, proprio per me, a trafiggermi l’anima.
La lirica si apre e si chiude con due immagini malinconiche e tristi: anche i «campani» danno malinconia, perché avvertono che l’inverno è vicino e che l’erba fresca e verdeggiante dei pascoli alpini sarà per lunghi mesi un dolce - amaro ricordo, mentre si mastica il «magro ultimo fieno».
Tra le due strofe, in quella centrale, accanto all’immagine gioiosa dei bambini, un’altra se ne apre e ci fa capire l’inciso «- allora -» e i tre puntini di sospensione alla fine della poesia; è l’immagine delle «rade, calde case illuminate», dove gli attributi «rade, calde», posti fianco a fianco, mettono subito in rilievo il contrasto fra due condizioni di vita: pochi possono godere del caldo tepore di una casa e della luce che neutralizza il buio della sera di settembre, dando non solo sicurezza e conforto, ma anche «trasparenza» e quindi visibilità a chi vi abita – una sorta di affermazione sociale –. È a questo punto, «- allora -», che Antonia scopre l’ombra, il buio: là vivono gli zingari «accampati sulle strade», senza tepore, senza luce, senza visibilità sociale, se non quella della loro indigenza, che è, quasi come contrappeso, libertà: libertà nello spazio, libertà dalle convenzioni sociali, libertà di cantare ciò che sono con le loro nenie malinconiche, che raggiungono le case illuminate, anche quella di Antonia…
Onorina Dino
Portofino
Si profila qualcosa d’inatteso in questa lirica, fin dall’apertura, dove forte si stampa il contrasto fra i «mandorli vivi» e le «tombe dei bambini»: con un percorso breve, ma intenso che si presenta in una veste descrittiva di paesaggio ligure fatto di rocce e di mare, Antonia Pozzi ci conduce da una realtà esterna, visibile, ad una realtà invisibile, ma percepibile attraverso una lettura che esca dagli schemi descrittivi.
Ma procediamo con ordine, seguendo i versi e le strofe, così come sono disposti e con le immagini che ci propongono, perché non è facile, come può sembrare, addentrarsi tra immagini e parole e ricavarne un senso “altro” da quello apparente.
La prima immagine, appunto quella dei «mandorli vivi» in antitesi con quella delle «piccole tombe» dei bambini, ci pone di fronte al mistero della vita e della morte e ci impone di sottolineare tre attributi: «lontani», «vivi», «infisse»; «lontani», riferito ai bambini e collocato in una posizione di grande rilievo – è infatti la parola che dà inizio alla lirica – ci mette subito sull’avviso: un abisso separa i bambini dai mandorli, l’abisso della morte – che è cessazione di vita e di tempo – mentre i mandorli continuano a splendere di vita e di colori, vivi e vivaci come l’aggettivo «vivi» suggerisce, con i loro petali bianco-rosa come la carnagione di un bambino; l’aggettivo «infisse», poi, fa sentire tutta l’immobilità e la durabilità della morte: la morte è “per sempre”: così il contrasto vita-morte si accresce e si acuisce, caricandosi di questo nuovo senso. Antonia, ancora sulla soglia dei quattordici anni, parlando del tempo e dell’eternità, aveva scritto nel suo diario: «[…] sempre, ripeto a me stessa; sempre…sempre… […] sempre! Parola terribile, terribile come mai!» (7 febbraio 1926).
Alle tombe «infisse agli scogli» si aggiunge la «vertigine» prodotta dalle alghe: esse stringono la roccia nello strenuo tentativo di farla sprofondare, di risucchiarla, d’accordo con le onde, che la percuotono nel «cavo cuore selvaggio»: che ne sa, infatti, la roccia delle tombe dei bambini, che, pure, sono infisse proprio nella sua pietra? Per questo, forse, il suo cuore è «cavo [e] selvaggio»: vuoto e senza amore.
Ed è qui, dopo questo incipit duro e tragico, che avviene una sorta di metamorfosi, della roccia, certamente, ma, prima ancora, una metamorfosi che avviene nel pensiero della poetessa; anzi, più che nel pensiero, nella sfera più intima della sua sensibilità, ossia nella sua religiosità, così apparentemente assente e, invece, così presente e viva da affiorare, all’improvviso, nelle sue immagini e nelle sue parole: la penisola-roccia scioglie la sua durezza selvaggia – «disfà i suoi nodi di terra» – e si trasforma in una nave cui fanno da vele le sue stesse «oscure foreste»; e in questa sua nuova identità scivola leggera, lasciandosi cullare dal moto lieve, incessante, del mare; e ad ogni onda è un nuovo orizzonte che si profila – più lontano, più vicino – in una « infinita altalena ». Non è, forse, un’altalena la vita? E l’altalena non è un gioco molto amato dai bambini? La loro altalena-vita è approdata per sempre su quella roccia-nave- altalena che ora continua a dondolare e a cullarli.
Un intreccio simbolico intensissimo si nasconde negli ultimi tre versi, dentro un notturno lunare: la penisola nave assume ora i connotati di madre che, in atteggiamento di umile accettazione – «china» – offre i suoi bambini – «i suoi lievi sepolcri» – ai «bracci di una gran croce lunare». Ed ecco l’immagine della “Pietà”, di Maria che, «china» nell’obbediente dolore, offre il Figlio al Padre e agli uomini: dalla croce del Figlio emana la luce che illumina il cammino degli uomini, la loro «infinita altalena»; così la penisola-nave-madre conduce i suoi piccoli figli all’abbraccio del cuore di Cristo.
Il dolore cessa per cedere il posto all’amore: tenerissimo amore di madre, che affida, «offrendo», l’oggetto del proprio amore a un amore più grande.
Come non pensare alla manzoniana “madre di Cecilia” ?
Onorina Dino
Preghiera
ll 1932 è l’anno in cui Antonia Pozzi scrive il minor numero di poesie, ma, tra esse, si trovano quelle che più intensamente riflettono, accanto agli altri drammi di natura esistenziale, il dramma dell’assenza di Dio e, quindi, della sua ricerca, del suo bisogno. È dramma perché Antonia ha conosciuto Dio, in un tempo lontano, nella sua vita di bambina, e poi non lo ha più incontrato veramente, ma solo di riflesso, nelle immagini della natura - cielo, sole, vette alpine, spazi infiniti - oppure nel volto dell’amato: «[…] era Dio che parlava in te, che voleva salvarmi attraverso di te. […] Tu sei stato la parola di Dio in me, la promessa della mia redenzione» (Lettera ad A.M.Cervi, 11-15 febbraio 1934).
Le vicissitudini angosciose e angoscianti della vita (l’opposizione paterna al suo amore per il professore e l’ingiunzione di troncare ogni relazione con lui) tengono Antonia in uno stato d’ansia e di disperazione, che sfociano in vuoto interiore; vuoto che pesa, però, e stritola come una macina da mulino. In questo vuoto Antonia sente che le manca Dio: le manca come certezza, le manca come speranza, le manca come consolazione e sostegno in un cammino irto di ostacoli e precipizi, dove inciampare e cadere è l’unico esito possibile, perché «Non avere un Dio» significa brancolare nel buio, «acciecarsi nel nulla» (Grido). Da questa prostrazione, che è al tempo stesso tensione così tumultuosa e spasmodica da bloccare persino l’ispirazione poetica, sgorga la preghiera, che diventa poesia.
Dopo tanto dibattersi nel vuoto, finalmente Antonia recupera quel Dio lontano, ma vicino come il vento che passa «sopra l’erba dei prati» senza che essa sappia riconoscerlo e seguirlo (Prati). La preghiera, ora, nella consapevolezza dolorosa della propria miseria e della propria aridità – perché «tutta l’acqua mi fu bevuta o Dio» –, si fa invocazione e domanda: «Signore, per tutto il mio pianto,/ ridammi una stilla di te/ ch’io riviva». Antonia riconosce, ora, che il Signore è il Dio della vita e della resurrezione, è la sorgente stessa della poesia; «il tuo canto segreto» dice infatti la poetessa, non il “mio canto”: la poesia è «il canto segreto» di Dio nell’anima.
È interessante notare che Antonia, rivolgendosi a Dio col nome più familiare di «Signore» e col pronome, ancora più intimo, «tu», usa il verbo sentire – «tu lo senti » – e il verbo vedere – «tu lo vedi» – : Dio sente che lei non trova più le parole per scrivere ciò che Lui le detta dentro; Dio vede che gli occhi di lei non si levano più a contemplare il cielo – suo luogo e suo simbolo – e che non è più in grado di lasciarsi consolare dalla bellezza della natura – volto di Lui. È, perciò, un Dio molto vicino, quello a cui si rivolge Antonia, un Dio molto “umano”; certamente, in questo momento, è un Dio-padre, misericordioso e consolatore. Antonia non sembra chiedergli cose eccezionali, straordinarie, ma, in realtà, è davvero eccezionale la sua richiesta e presume una grande confidenza, ossia una grande fede: chiedere «una stilla di te» significa credere che Dio è tutto e che lei è tanto povera cosa che una «stilla» sola di Lui, della sua acqua divina ristoratrice – dono di grazia – le può bastare per ritrovare il contatto vivo con la natura e il dono della poesia: in una parola, le può bastare per rinascere. Con quella «stilla» lei potrà ancora essere la “portavoce” del «canto segreto» di Dio. Qualche mese più tardi Antonia sembra confermare questo, quando scrive a Tullio Gadenz, poeta e da pochi giorni amico: «Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato nel cuore» (Lettera, 11 gennaio 1933).
Onorina Dino